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Recensioni L’isola che non c’era



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Il Ramo e la Foglia, 20 giugno 2021, a cura di Anna Pambianchi

Rammemorando, pur nella sua singolarità, gli altrove letterari che lo hanno preceduto, L’isola che non c’era è un racconto lungo che intreccia un immaginario devoto al paradosso. Descritta solida e intatta come un dente di cristallo… una spina nel fianco del mondo; al centro delle dicerie, in quanto esiste davvero, pur essendo incline a sprofondare negli abissi e poi a riaffiorare; narrata in un libro ormai perduto, l’isola possiede il motore della sua riapparizione proprio in quel dileguarsi e nell’oblio che ne segue. Dunque un’isola straniera ad ogni tempo e a ogni luogo e al contempo del tutto congeniale al secolo presente. Sarebbero sufficienti queste note iniziali a invogliare persino il lettore più riottoso a salire a bordo. Leo, il protagonista, decide di affrontare il viaggio verso l’isola dopo aver perduto ogni radicamento. Sulla sua storia l’autore fa gravare una misteriosa smemoratezza. Il lettore si chiede se sia un caso che a stento si faccia cenno alla famiglia e al luogo di nascita che affondano non appena affiorati. La vicenda sembra poi prendere corpo e definizione. Ma per chi legge è solo un rifiatare, una tregua momentanea. Altri interrogativi corrono tra le righe nell’impervio tentativo di dare un’identità al personaggio e alla sua vita che precede la scelta. Leo tradisce con noncuranza o è soltanto mosso dalla forza oscura di chi è stato tradito e che, pur senza consapevolezza, ne manifesta la dolente traccia? È un giovane che si limita a respingere le consuetudini convenzionali dei più? Un solitario sognatore? O un alieno che rifugge ogni genere di lotta?

A Leo tuttavia sono rimasti un’umile ingenuità e la scorta del sogno e con questo magro bagaglio abbandona il Continente: nudo navigante, che a vele spiegate si dirige verso l’isola di cui si favoleggia. Dopo l’approdo, Leo vive ogni incontro all’insegna di un inesausto desiderio di conoscenza: apprende così che gli isolani amano l’arte della scrittura e fin da bambini la esercitano perché tutto si regge sulla parola… per ogni parola c’è sempre un albero…. L’albero e la parola fanno il libro… ma per ogni libro dieci alberi saranno piantati. E ancora la parola scritta – afferma un isolano – vale incomparabilmente più di ogni altra cosa…

Gli abitanti dell’isola sembrano invece piuttosto sfuggenti rispetto agli interrogativi timidi eppur serrati di Leo. La parola esce faticosamente dalle bocche, frammentata, bisognosa di continui aggiustamenti, tesa alla sintesi estrema, come se ad essa si preferisse il silenzio. Si distingue in controtendenza il dottor Elwin che narra il tentativo generoso di realizzare nel Continente un contesto sovversivo attraverso il quale uscire dalla prigione del mondo… il concetto di vuoto più di ogni altro incarnava il fulcro attorno al quale ruotava spesso la nostra riflessione. Aggredire quel vuoto avrebbe significato colpire al cuore l’organismo oppressivo da cui dipendevamo tutti…

Aveva lavorato a una rivista in cui trovavano spazio autorevoli voci della cultura d’oltremanica oltre a una nutrita colonia di artisti internazionali, di poeti, di sperimentatori del linguaggio; rivista critica nei confronti del pensiero unico dominante… Insomma una sorta di infrastruttura di senso capace di restituire speranza alla vita futura.

La cultura, lo studio, l’impegno sarebbero stati il fulcro di quell’atteso sovvertimento.

Il lettore si specchia nel dottor Elwin e nel suo disegno. Ma è solo questione di un attimo perché lo specchio rapidamente mostra fin troppo evidenti incrinature. Il dottor Elwin confessa che la sua timidezza - una sorta di afflizione dello spirito - nulla ha potuto contro il vuoto di cui era ostaggio assieme ad altri e contro l’oppressione di quel sistema. Dopo aver ammesso malinconicamente che quella rivista che tanto lo aveva impegnato era stata nella sostanza un’opera di fuga, difende la scelta sua e dei suoi collaboratori di dirigersi verso l’isola, scelta dettata dalla necessità, dal profondo turbamento, dal naufragio del sogno. E dunque sull’isola di sopra il dottor Elwin ha portato con sé la propria sconfitta – intuisce Leo. L’indole del dottore si fa più trasparente agli occhi del protagonista durante la perlustrazione del pozzo ove egli conserva zanne, corna e denti d’avorio e collezioni di farfalle dai colori smorti. Quando vengo quaggiù… non riesco nemmeno a pensare… se non all’infinita sterilità di ogni pensiero – riconosce il dottor Elwin. Leo osa interpellarlo riguardo alla continuazione del lavoro comune. Ma la risposta latita.

Come latitano le riposte del dottore sulle questioni cruciali: il potere sull’isola, la legge e la sua applicazione, la proprietà, il sentimento di una comune speranza. Elwin, per quanto desideroso di dar risposta alle aspettative di Leo, nel suo sofferto turbamento, riesce solo ad abbozzare approssimazioni vaghe ed enigmatiche ai brucianti interrogativi. Leo, esploratore impavido di una tanto lussureggiante foresta, riesce soltanto a concludere: …a me qui tutto sembra affondare. Eppure sente distintamente che la propria pena e quella del dottore sono contigue. Soffrono della medesima angustia dalla quale entrambi hanno cercato di allontanarsi. Si domanda se ci sia un rimedio a quel male. Immagina che la radice della sofferenza sia vigorosa se il dottor Elwin in tanti anni non è ancora riuscito a estirparla.

Il viaggio di Leo nella ricognizione allegorica ed esistenziale procede verso il necrolario, la casa delle gravide, la casamatta (oscuro e pressoché inaccessibile luogo di confine del pensiero). Una significativa rivelazione è ancora il dottor Elwin a porgergliela: …i miei colleghi… hanno ricomposto il libro che… occorreva a tutti i costi recuperare … hanno lavorato alacremente senza guida come sacerdoti di un verbo senza religione…il libro è il luogo di un sapere nascosto, la religione di un oblio…

Duramente incalzato da opposte visioni sul mistero dell’isola, Leo è chiamato a discernere quale verosimiglianza attribuire alle interpretazioni dei vari personaggi. Contare sul dottor Elwin che, pur sostenendo l’inesistenza di verità assolute, lo sollecita a rimanere nell’isola e nell’idea sperimentandole fino in fondo, oppure piegarsi agli ardenti ammonimenti di Aldina che gli suggerisce di non farsi abbagliare né condurre troppo in là e di fuggire perché l’isola è un’opera che divora, l’opera perfetta che non esiste? O ancora confidare nel lavoro certosino dei collaboratori del dottor Elwin che hanno ricomposto il libro/opera sull’isola come strumento essenziale di una realtà ritenuta conoscibile?

Ora l’isola sta per affrontare l’ennesimo inabissamento.

Leo, sotto il peso dell’inquietudine nutrita da interrogativi pressanti e irrisolti, si congeda dal lettore con una dolente folgorazione: nell’isola - ove alcuni esseri umani osano la conoscenza di sé stessi -…il libro non può mai aprirsi davvero… è un libro chiuso… che un giorno, forse,… l’isola restituirà di nuovo al suo oblio riemergendo dai mari. il sogno pare essersi consumato facendosi cenere. La sua umile ingenuità, ora alla prova del più denso dei significati, non è più nuda. Si è rivestita indossando l’enigma e la pietà assorbiti dall’esperienza delle vicende dei personaggi incontrati. Forse, maggiormente equipaggiato, potrebbe salpare di nuovo verso una nuova isola/idea. E forse il lettore con lui. Perché, pur lasciando sullo sfondo gli eventi della Storia, il racconto dipana le storie tormentose dei singoli, quelli che sul Continente ci vivono, quelli che sognano di abbandonarlo. E, dunque, l’isola appare come la transitoria zattera degli spiriti desideranti.


Al di là dei personaggi e della tessitura delle loro vicende, L’isola che non c’era ha il pregio di una scrittura da un lato sapientemente allusiva, e, dall’altro, capace di frangersi e ricomporsi in uno stile che alterna risacca e mulinello, singhiozzo e ala di vento. Per chi è scettico rispetto alle narrazioni cucite con il filo della certezza, L’isola che non c’era è un’opera che non lascia tregua al lettore cui chiede di mettersi a cimento in una sorta di stretto, dialettico, confronto con l’immaginario dell’autore.


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LiberoLibro, 22 maggio 2021, a cura di Katia Ciarrocchi

…un giorno come altri, si sarebbe avventurato alla volta dell’isola portando con sé nient’altro che la sua umile ingenuità.

Seguo Leonardo Bonetti sin dal suo esordio, credo di aver letto tutta la sua produzione e devo dire che ne sono letteralmente innamorata. Ho affrontato l’ultimo suo lavoro “L’isola che non c’era”, edito Il ramo e la foglia, con tantissime aspettative visto i suoi precedenti.

Un’isola è riemersa dalle acque dell’Adriatico misteriosamente, questo avviene solo dopo la scomparsa del libro che la raccontava, ma con la sparizione di esso nulla di spiegabile o scritto c’è sulla natura dell’isola.

L’isola è il viaggio che intraprende Leo il giovane protagonista de “L’isola che non c’era”, dopo aver subito un abbandono totalmente inaspettato, aprendo uno squarcio immenso, ed è così che parte alla ricerca di un riscatto per il torto subito.

Leo (mi sorge un dubbio che Leo sia proprio l’abbreviazione di Leonardo nome dell’autore? Che l’autore stesso stia affrontando metaforicamente il suo viaggio interiore?), trova una terra affascinante un luogo sereno, dove ognuno vorrebbe vivere perché vi regna armonia e giustizia, ma tanta bellezza cosa nasconde?

Nella vita precedente all’isola, Leo è descritto come un uomo insignificante dove non è protagonista degli eventi, ma li subisce lasciando che essi decidono per lui, sull’isola vi è la sua trasformazione, è lui il protagonista, inizia a porre e a porsi domande perché ciò che lo circonda non lo convince: e dov’è anche questa volta l’inganno?

L’aspetto filosofico del senso delle cose e della vita stessa aleggia sulle pagine del libro di Leonardo Bonetti, e il lettore non può far altro che soffermarsi a riflettere, questo è inevitabile se ci si ritrova immerse nelle sue pagine. Ma soprattutto il messaggio che arriva dritto è che dalle difficoltà che la vita ci pone davanti non si fugge; forse è solo utopia la perfezione che sembrava abitare l’isola, il mondo perfetto non esiste nemmeno ove tutto sembra tale.

Bonetti ne L’isola che non c’era lascia aperto il finale, forse per un proseguo o forse solo per dare l’opportunità al lettore di scrivere il suo di finale, di arrivare alla propria conclusione.

Interessante l’idea principale del libro, ma a mio avviso la scrittura evocativa e sicuramente troppo ricercata e aulica, stona con il lettore del nostro secolo, ne appesantisce la lettura non permettendo la fluidità di cui il romanzo ha bisogno.

«Il mio bambino nascerà tra cinque mesi, se l’isola lo vorrà» continua Antonia piena di pietà «e se sarà di un’altra. Ma non me ne do cura. La nascita è sempre una separazione».

Ed è davvero una fortuna che gli alberi siano così benevoli e il loro dialogo tanto silenzioso; qui, sulla nostra isola, nessuno può giudicare. È escluso il concetto stesso di sentenza, di verdetto. E le cose, così, vanno molto meglio, mi creda…

C’è sempre bisogno di qualcosa che ci separi da farci sentire vicini.


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Minima Moralia, 7 maggio 2021, a cura di Roberto Deidier
Tra simbolo e mistero. L’isola che non c’era di Leonardo Bonetti
Un’isola «che non c’era», come recita il titolo, e adesso c’è, affiorata in una zona del canale di Sicilia, come l’isola Ferdinandea nel secolo XIX, subito contesa da più stati e poi scomparsa; e ancora, un’isola-continente, sede di sperimentazioni utopistiche, come l’ A tlantide, che invece di affiorare affonda nelle regioni indistinte del mito. Ingredienti presi dalla realtà come dalla leggenda, tutti indirizzati alla costruzione di un romanzo dal forte sentore figurato, che anzi procede di capitolo in capitolo offrendoci un repertorio di simboli legati ai luoghi esplorati dal protagonista Leo o derivati dallo scandaglio delle sue più intime tensioni: questo è L’isola che non c’era di Leonardo Bonetti, che inaugura l’attività editoriale di una nuova casa editrice con sede a Roma, Il ramo e la foglia.

Ciò che colpisce di questo romanzo, ad apertura di libro, è anzitutto la grana della scrittura, il lavorìo di definizione delle immagini, di continua messa a punto dello stile, elemento ancora più pregevole a fronte di molta produzione francamente sciatta, o atteggiata a quella sciatteria, facsimile di tanta narrativa americana o inglese, a cui spesso anche i nostri scrittori indulgono. Il lettore che si appresti ad affrontare un romanzo come questo resterà subito deluso, o sorpreso, dal decisivo cambio di rotta. Del resto, l’efficacia di un simbolo, ovvero di ciò che viene a sostituire il suo correlativo assente, sta proprio nell’esattezza, nella forza con cui è capace di ricordare, di evocare ciò che è chiamato a rappresentare.

Questa ossatura simbolica prosegue di tappa in tappa, o meglio, di episodio in episodio, verso quello che sembra allestirsi come un Bildungsroman, il cui protagonista, ancora giovane, ha però oltrepassato la canonica soglia dell’adolescenza e si trova ad affrontare una crisi ben più profonda, apparentemente innescata da una delusione sentimentale. Dico apparentemente, poiché l’antefatto che ci viene narrato nelle pagine iniziali sembra più un pretesto per intraprendere una vera e propria quest, una ricerca interiore di ben più ampia portata.

Ed è una ricerca che si intreccia con una dimensione che non stenteremmo a definire politica, nel significato più alto, poiché la scrittura sposta tutta quella carica simbolica verso un preciso obiettivo, che è l’isola stessa, luogo del mistero (il termine di gran lunga più ricorrente nell’intero romanzo e variamente declinato) e soprattutto scenario di una distopia, che finisce per ledere le già sparute certezze di Leo. Il quale, infatti, non tarda a scoprire che quella costa sperduta e difficilmente accessibile è in realtà un grande organismo autofago, che si regge su precise norme e distinzioni di classe (c’è un’«isola di sopra» e poi ci sono paesi che è meglio evitare, come Salicundo, Surdo, Curi, che compongono invece una contro-isola, un’isola di sotto segnata da un’evidente alterità). Ed è, anche, un approdo arduo come una partenza impossibile. Sembra di essere entrati all’inferno, come in una vecchia canzone degli Eagles: si può sempre arrivare, si può sempre fare il check-out, ma non si riesce mai a fuggire.

Ogni personaggio sembra rivestito di una patina di mistero, perfino un’iguana, esplicito omaggio che ogni lettore di Anna Maria Ortese riconoscerebbe. Si tratta forse di un piccolo segnale nei confronti di un’autrice che tanto avrebbe in comune con questo romanzo, quanto a descrizioni di fatti, situazioni, infine persone segnate allo stesso modo dal segreto (l’isola stessa lo è, come dichiara l’enigmatico Dottor Elwin), come da una sorta di creaturalità offesa, costretta a subire decisioni e azioni altrettanto enigmatiche, e


contenute in luoghi precisi: strani opifici, una «casa delle gravide» e un «necrolario» che stanno a segnare un alfa e un omega esistenziale, ma anche un preciso confine ancora una volta simbolico tra la potenzialità di ciò che nasce, anche sul piano delle idee, e ciò che è destinato a perire scontrandosi con una realtà definita quanto incombente.

Può sembrare che Bonetti, autore che forse si rispecchia nel suo protagonista a partire dal nome, sia rimasto indeciso sulla direzione di genere, come il suo personaggio fatica a conquistarsi nuove consapevolezze in un ambiente a cui non può adeguarsi; è piuttosto vero, al contrario, che proprio in questo coacervo tra simbolo, avventura, distopia si realizza un’opera singolare, che lascia molto da pensare sulle nostre grandi attese, singole e collettive.


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Read and Play, 3 maggio 2021, a cura di Stefano Ficagna
Di isole e di utopie: “L’isola che non c’era” di Leonardo Bonetti
Un’isola riemerge all’improvviso dalle acque dell’Adriatico, proprio quando l’ultima copia del libro che ne narra la genesi scompare. Protetta da barriere naturali e da un campo magnetico che la scherma dal mondo esterno, rimane impenetrabile agli occhi dei curiosi tranne di chi, come il giovane Leo, non decide di abbracciarne le leggi, o meglio l’apparente mancanza di queste. Non esistono furti né malattie nell’isola che non c’era, ma forse esistono segreti inconfessabili che rischiano di minare l’utopia che qui si va costruendo.
La playlist
Ascolta la playlist su Spotify: L’isola che non c’era di Leonardo – Bonetti
È stato l’autore stesso, musicista a sua volta nella band
Arpia, a indicarci i brani da inserire nell’ideale colonna sonora del libro, una sorta di mappa musicale per addentrarci con il giusto stato d’animo fra i suoi misteri. Le atmosfere sono perlopiù ipnotiche e meditative, spaziando fra brani iconici del rock anni 70/80 (Iron Maiden,Pink Floyd e Metallica) compositori moderni e non (Mike Oldfield, con la sua iconica Tubular bells, e il ceco Antonin Dvorak) e cantautori italiani della miglior scuola (Ivan Graziani, Edoardo Bennato e Fabrizio De André). Colpisce la presenza della Meditation di Eduard Artemyev, tratta dalla colonna sonora del capolavoro Stalker di Andrej Tarkovskij: viene spontaneo un parallelo fra il mondo senza regole definite esplorato dai protagonisti del film e l’isola, dove uomini delusi dal mondo esterno cercano di creare una nuova società.
Tracklist
Leonardo Bonetti accompagna ogni brano della playlist con una breve frase, esplicativa delle suggestioni sonore che lo hanno portato a sceglierli.

1. Strange World – Iron Maiden

Lo strano mondo dell’isola

  1. 1.Meditation – Edward Artemiev
    Meditazione musicale o musica
    pensata

  2. 2.Fuoco sulla collina – Ivan Graziani


Tra visione e realtà

4. T ubular Bells –

Mike Oldfield

Alchimie sonore dell’isola

5. Shine on you crazy diamond – Pink Floyd

La bellezza e la follia

6. Venderò – Edoardo Bennato

Della libertà e del potere

7. Sinfonia no. 9 op. 95 “Dal nuovo mondo” – Antonin Leopold Dvorak L’organon del nuovo mondo

8. Orion – Metallica

Dal mare dell’essere

9. Ho visto Nina volare – Fabrizio De Andrè

I personaggi dell’isola come isole

nell’isola

L’utopia della libertà
Il libro di Leonardo Bonetti è bizzarro, coniuga la leggerezza della favola con il rigore della ricerca filosofica. Dopo averci illustrato la comparsa dell’isola l’autore passa a presentarci Leo, protagonista impacciato e poco adattato nel mondo che lo circonda: un amore finito e la ricerca di un posto da poter chiamare davvero “casa” lo spingono al largo, verso quell’isola respingente che pare però pronta ad accogliere coloro che ne condividono lo spirito.
Leo conosce vari personaggi man mano che la sua permanenza sull’isola si allunga. Una famiglia lo accoglie all’arrivo, introducendolo alla vita semplice e comunitaria che ne sta alla base, fatta di lavori nei boschi e chiacchiere attorno al focolare; si innamora di Aldina, una giovane giunta da due anni sull’isola ma già promessa sposa a un altro; conosce in un secondo momento Elwin, o Dottor Timido come preferisce farsi chiamare, un professore giunto poco dopo l’emersione e più di tutti informato su come si è sviluppata la comunità. Tramite questi incontri scoprirà le regole non scritte di un posto dove la libertà sembra a portata di mano, almeno finché non diventeranno palesi le contraddizioni che la animano.
«Mi accade così: quando mi sorprendo a formulare un pensiero, un concetto, cresce in me il sentimento di una colpa non meglio precisata. Una colpa umana, per dirla meglio. Ne sono esclusi tutti gli altri esseri della terra. Io so che a questa colpa un tribunale imporrà presto una pena esemplare. Ed è davvero una fortuna che gli alberi siano così benevoli e il loro dialogo tanto silenzioso; qui, sulla nostra isola, nessuno può giudicare. È escluso il concetto stesso di sentenza, di verdetto. E le cose, così, vanno molto meglio, mi creda...» Elwin
L’idilliaca logica di mutuo soccorso che sembra reggere la vita dell’isola si sgretolerà pian piano, portando Leo a porsi più dubbi di quanti vorrebbe man mano che viene a conoscenza di segreti e restrizioni. Scoprirà che le regole apparse inizialmente tanto naturali non soddisfano gli abitanti quanto vorrebbero far credere, che ci sono luoghi da evitare e luoghi misteriosi, come il Necrolario e la casamatta di pietra e cristallo che sorge sulla montagna, dove finirà per cercare la verità che sta dietro l’apparente perfezione dell’isola che non c’era.
Lo stile
Bonetti ha un linguaggio aulico e ricercato, sottintende ma non spiega apertamente. Il suo obiettivo è quello di far interrogare il lettore sugli stessi temi di cui discorre, su quanto sia auspicabile l’utopia che disegna e su quanto è facile che le premesse migliori vengano distorte, negando la libertà nel momento stesso in cui cercano di farne il cardine primario della società. L’isola che non c’era, primo libro edito dalla casa editrice romana Il ramo e la foglia, è una favola che si fa sempre più oscura man mano che la lettura avanza, apparentemente ingenua come il giovane Leo ma che porta a interrogazioni profonde.


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Letteratour, 13 aprile 2021, a cura di Teresa Capello


IL SEGRETO DELL’IGUANA: SU “L’ISOLA CHE NON C’ERA” DI LEONARDO BONETTI

In medias res de L’isola che non c’era di Leonardo Bonetti, prima uscita della nuova Il ramo e la foglia edizioni, si legge di un’iguana, tenuta di giorno dai suoi due ineffabili anziani proprietari come animale da compagnia e la sera rinchiusa in un bungalow, su un terrapieno dentro uno stagno.

In un lampo disperato, gli occhi dell’animale svelano un amore.

«Insomma, la vedi o no?» insiste Aldina. «Chi?» fa Leo riavendosi.
«Isolina, no? Te l’ho detto».

(...) «È innamorata di te, non l’hai capito? Ha perso la testa, ecco tutto»

L’amore – o per meglio dire la ricerca di senso nell’alfabeto dei sentimenti – è uno dei fili narrativi che vengono tesi nel lungo antefatto del romanzo nel quale Leo, il protagonista, viene brutalmente scaricato da un’amata; decide quindi di imbarcarsi su un peschereccio che lo condurrà su questa strana isola, una specie di Atlantide ionia che non c’è ma va ricercata, una sorta di punctum indistinto tra lo sprofondare e l’emergere.

Quest’isola non c’era. Non compariva nei portolani, immaginosi resoconti redatti dagli equipaggi del secolo decimosesto. Né in seguito nelle descrizioni dei mercanti o degli avventurieri che solcavano il Mediterraneo a loro rischio e pericolo.
Sull’isola le atmosfere di luce, di colore, di silenzio riescono ad essere contemporaneamente cristalline e fredde, in un viaggio che pare essere al termine del giorno. A mano a mano che la narrazione prosegue, si comprende infatti che, per il protagonista, questo percorso è anche rifiuto di una parte di sé e di quello che è stato, un po’ come per tutti coloro che vi giungono, scendendo fuggiaschi sul pontile, in bilico tra passato e futuro.

Il crescendo narrativo della seconda parte rende piacevole scoprire quale sistema sociale possa governare questo bizzarro scoglio, dove le presenze femminili sono assenze, hanno sorrisi bianchi e gelidi e sono costrette ad abbandonare i loro figli dopo averli partoriti. Aldina e gli altri personaggi femminili sono tutti esseri misteriosi che hanno qualcosa di selvaggio, come selvaggio è il mistero che lentamente si viene a scoprire.

La metafora della curiositas del protagonista è il fantasmagorico giardino dove i proprietari Arsenij e Oleksandra tengono prigioniera l’iguana.
Vi si possono trovare pitoni, anaconda, tartarughe, uno strepitoso serpente del latte che imita in modo pressoché perfetto il corallo, suo temibile gemello; un serpe del grano color arancio che manda cattivi odori; un marasso dagli occhi rossi messo dentro una teca sempre sporca – a sentire il Dottor Elwin – tanto da confondersi con lo strame posto nel fondo; e soprattutto un’iguana dal carattere indocile, certa Isolina, che Oleksandra spesso porta in grembo.

È sul lettore, infine, che il romanzo si avvita, gradualmente torcendo la spirale della narrazione come se incombesse la scoperta razionale di un ignoto che – sembra implicitamente affermare Bonetti – si attende perché siamo proprio noi esseri umani ad essere desiderosi di quello che l’ignoto sa dirci a proposito di noi stessi, chiusi nel giardino del nostro narcisismo.

All’inizio Robinson Crusoe, il protagonista Leo nel finale si trova in una narrazione di Buñuel a chiedersi se ci possa essere sia un senso nelle strambe consuetudini degli abitanti dell’isola che non c’era, ad interrogarsi sulla vita comunitaria e sul potere, in un non- luogo dove, ad un certo punto, neppure il corpo sembra avere più consistenza: l’aspetto filosofico infatti prevale, ti lascia con il desiderio di approdare a quel pontile, fermartici a pensare, svuotare di un vuoto momentaneo la tua vita per riempirla di molte domande future.


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Letteratour, 12 aprile 2021, a cura di Rosella Rapa
L'Isola occupa un posto speciale nell'immaginario della letteratura: in questo caso, immediatamente si pensa all'Isola che non c'è, di Peter Pan, ma abbiamo anche l'Isola di Laputa, in Gulliver; l'Isola Misteriosa di J.Verne, l'Isola della Tempesta di Shakespeare, l'Isola di Robinson Crusoe, e tante altre. L'Isola è uno spazio racchiuso, e al tempo stesso aperto, con mare, cielo e tante tante sorprese, al di là di ogni immaginazione.
L'Isola che non c'era ha una particolarità unica: appare e scompare, o meglio, emerge e sprofonda, a cicli, collegati a un libro misterioso che ne racconta la storia; una storia che non si riesce mai a conoscere per intero. Il protagonista, Leo, ci vuole provare, sfidando le insidie che si nascondono tra lo splendido paesaggio; questa sua avventura è il tema principale del romanzo. Ma... romanzo breve o racconto lungo?
La tecnica narrativa dello scrittore è magnifica, il linguaggio sublime. L'aspetto estetico dello scrivere è stato curato in ogni sua forma; è destinato a un pubblico colto, agli amanti della letteratura e del letterario. Un'opera raffinatissima, che chiede lettori altrettanto raffinati, o quasi. Una storia fatta di quadri colorati, di immagini al sole, di solitudini devastanti.
Leo, in Italia, conduce una vita totalmente sballata, priva di un nesso logico, priva di volontà. Si lascia trascinare dagli eventi senza discuterli, e subito li dimentica, luoghi, accadimenti, persone. Agisce come una banderuola sferzata dal vento, finché, per la troppa furia, la bandierina si strappa, così come va in pezzi la sua vita. Senonché, sente parlare dell'
Isola che non c'era e dei suoi misteri, così decide di trovarla. La prima decisione presa in vita sua, probabilmente.
Sul piano della trama, e del suo svolgimento, alcuni punti appaiono discontinui. Molto spazio dedicato alla prima parte, con Leo che arranca, e meno al Viaggio. Viaggio per scoprire i segreti che sicuramente l'Isola nasconde, viaggio anche per Leo, che passa dall'incoerenza alla capacità di gestire la propria vita e i propri pensieri. L'Isola è descritta in maniera splendida, con paesaggi mozzafiato che paiono dipinti, e vie pericolose per potervi accedere. Una natura viva e magnifica. Ma che ci siano delle stranezze, dei "nonsense", lo sbadato Leo lo capisce quasi subito. Meglio non svelare nulla, però le persone non vivono come sulla terraferma, hanno altre regole imposte da qualcuno, o qualcosa, che non si vede. Si percepisce. Chi racconta della sua vita prima dell'arrivo sull'Isola sembra esagerato. E le loro vite attuali appaiono sospese, fluttuanti. Ci sono argomenti proibiti, azioni rituali, giardini incolti.
Leo vuole conoscere l'inconoscibile, svelare il mistero che avvolge l'Isola, conoscere L'Entità che detta le leggi assurde che i suoi amici sono tenuti a rispettare. La sua determinazione ha dell'incredibile, se si pensa a com'era partito. Con una giovane coppia sale fino alla cima della vetta più alta... per scoprire che ci sono altre vette e, soprattutto, altre discese, discese in fondo alle quali ci sono altri villaggi, altri abitanti, altre vite.
Qui il romanzo ha un nuovo punto di discontinuità: Leo non si ferma, non esplora i villaggi, non cerca di creare amicizie. Passa e se ne va. Perché? Da un autore che cura fino all'ossessione la forma e la parola, per creare una sorta di scultura letteraria, è necessario chiedersi se l'interruzione sia deliberata o meno.
Ricordando il più filosofico e allegorico tra i nobili precedenti, "I viaggi di Gulliver", non solo l'Isola rappresenta una metà del suo proprio mondo; anche tutti gli altri viaggi consistono in due metà separate alle quali viene data la stessa rilevanza. In questa
Isola che non c'era c'è invece molta fretta, tanta fretta, ansia addirittura, per concludere il proprio percorso, tralasciando una componente di esso che poteva essere importante, soprattutto per i nuovi misteri che contiene, sempre più incongrui, sempre più pazzi, o impazziti.

Il libro si legge volentieri, il discorso è scorrevole, il linguaggio, come già detto, estremamente colto e personale. E' raro trovare un abbinamento tra parole tanto ricercate e frasi strutturate agilmente: insomma è una vera prelibatezza letteraria. La vicenda è senz'altro ricca di metafore (a cominciare dall'Isola stessa, e dal viaggio di Leo) alcune si comprendono facilmente, altre richiedono attente riflessioni, ma in fondo perché cercare tanti sottintesi? E' pur sempre un romanzo, una storia. Una storia ben narrata, che non annoia. Una storia favolosa e fiabesca, per Adulti veri.

Citazioni

... un’isola come un’altra, a vederla, ma di cui il parlare in segreto, col tono della confessione, ha alimentato a ogni ora dubbi e perplessità ...
... luogo per pochi, ma dove non si avverte contrasto tra la necessaria selezione e il sentimento d’uguaglianza nutrito da ognuno ...

... le rocce splendono nude, senza forma, ricche solo d’origine e stupore ... cime dalle nevi perenni, dolci valloni a mezzogiorno, d’un verde olimpico, sulle cui pendici pascolano vacche dal ventre pingue ... il cielo muove immense nubi come uno schieramento prima della battaglia ...

... sarà stata l’aria del mattino e l’energia del caffè ribollito la sera prima, o le fette di salame stipate nel tascapane; ma l’impressione di vita e di gioia è difficile da descrivere ...
... scopre quant’è forte l’olmo, quanto è amara la fatica ... E il vento dell’albero viene giù, infatti, olmo gigante buono, facendo spire di foglie e stramando intorno ...

... “siamo fratelli a metà, come tutti gli altri. Sull’isola è questo l’uso. Da noi ... il padre non ha potere né sui figli né sulle sue donne. Né noialtre rivendichiamo diritti naturali di alcun genere. Offriamo solo il nuovo nato alla donna che prenderà il nostro posto accanto al nostro uomo, e siamo contente perché li affidiamo a un seno meno caldo ...

... “la distanza è lo schermo che protegge. E anche se l’isolamento è un prezzo alto da pagare, la liberazione dalla pena di vivere vale la rinuncia. Perché ci si libera solo smettendo di specchiarsi” ...
... le persiane in legno, dipinte di un verde poco accurato, denunciano una trascuratezza che fa male ... quello di fronte a loro non può certo dirsi un giardino ben curato disseminato com’è di arbusti ed erbacce, sporco e con le spalliere di pietra in parte franate ...

... “qui tutti si scrivono. Scrivere un biglietto è la forma migliore per considerarsi vicini. La parola scritta vale incomparabilmente più di ogni altra cosa” ...
... il mare, in lontananza, pareva uno specchio senza tempo né vita ...
... “mi ero sentito estraneo alla vita di sempre, alla mia impossibile vita portata avanti per anni; e avevo preso la decisione di raggiungere l’isola ... ci aveva condannati, ecco la parola, ad abbandonare tutto per recarci nel più breve tempo possibile alla volta dell’isola di sopra” ... In ogni cosa c’è bellezza e bontà soprattutto in questo giardino. Basterebbe intendersi sul concetto di bellezza e di bontà, ovviamente” ...

... “In verità quando vengo quaggiù provo una noia mortale. Non riesco nemmeno a pensare... se non all’infinita sterilità di ogni pensiero. Queste farfalle sono morte e sepolte. E così l’avorio. Ora che ci penso questo pozzo è una metafora” ...
... “l’idea stessa di proprietà e i commerci conseguenti legati ad essa - descriveva un concetto estraneo all’isola prima che a noi stessi; e che il possesso di un bene o di un fondo era stato qui bandito” ...

... “anche una rivoluzione riuscita non può pretendere di bastare a se stessa. E che ogni avanzamento nella vita non è sufficiente a esaurire il mistero racchiuso nell’ordine delle cose ... tutto è in quella luce senza sole, piovuta da un luogo sconosciuto. Come se il cielo e il mare fossero una cosa mai pensata prima” ...

... “il mistero è sempre sotto i nostri occhi ... ma a pensarlo non si trattiene. Perché sembra immobile, ma non lo è mai abbastanza” ...

... “sa, a sentire i suoi discorsi dovrei convincermi che l’isola ha realizzato una speranza comune. E che già solo questo dovrebbe bastare a rendere felice chiunque. Eppure, glielo confesso, io non sento crescere in me nessun sentimento del genere. E non lo sento crescere perché, in verità, esso non è presente sull’isola. E nonostante la leggerezza delle cose e degli sguardi. Mi permetta di essere sincero, la prego: a me qui tutto sembra affondare” ... ... “l’isola deve tornare da dove è venuta ... è questo ciò che ognuno avrebbe dovuto desiderare” ...

... “Non c’è opera per cui varrebbe la pena spendere la vita Nessuna grande opera che possa vivere della sua perfezione. È solo una vanità che nutre le immaginazioni più testarde, fuorviate dal loro stesso desiderio “ ...
... il mondo e l’isola sembrano una babele di lingue non parlate, di occhiate tolte con l’inganno ...



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Formicaleone, 12 aprile 2021, a cura di Isabella Bignozzi

UN’ISOLA CHE ATTRAE E RESPINGE
Leonardo Bonetti, artista poliedrico, già noto agli annali come autore di contributi critici, opere di narrativa, prose poetiche, raccolte di racconti, realizzazioni cinematografiche, nonché compositore e musicista underground, vede in queste prime settimane del 2021 l’uscita della sua ultima fatica letteraria, il romanzo
L’isola che non c’era, per Il ramo e la foglia edizioni.
L’isola di cui si parla, ci fa capire da subito il narratore, non è un luogo certo né affidabile, e non compare «nei portolani, immaginosi resoconti redatti dagli equipaggi del secolo decimosesto». Sembra riemergere dalle profondità marine nella sua fisicità – fatta di vertiginose mulattiere, speroni selvaggi, ampie vallate molli d’erba, animali consueti e creature prodigiose – proprio quando si registra la scomparsa del chimerico volume che «a detta di alcuni, ne avrebbe descritto la nascita e il mito».

Dunque, nell’esatto istante in cui rischiava trascuratezza e oblio, l’isola riprende a esistere, e ha ora una «separatezza» e una «necessità» costitutive, che ne fanno quasi un magnete, l’approdo naturale di un certo tipo di esseri umani, tra i quali il giovane Leo: un ragazzo ingenuo ma traditore, bello ma smunto, d’un tratto provato egli stesso dal tradimento da lui somministrato all’innamorata quasi come legge naturale; personaggio che evolve e si trasforma, partendo da una sofferenza che spesso tutti ci accomuna: il vuoto, l’assurdo e i numerosi falliti tentativi di realizzazione – lavorativa, sentimentale, identitaria – che «il continente» gli ha inflitto.

Leo scivola dapprima in una liberatoria atarassia: «In giro per la cittadella, quella sera, con la scritta chiuso applicata sul petto, fece la sua bella figura. I pochi passanti, dagli sguardi ostinati ma divertiti, sembrarono volergliene rendere merito prima di tirare diritti per la loro strada», poi parte alla volta dell’isola, dopo essersi appropriato, con la complicità di alcuni compagni maghrebini, di un peschereccio sotto sequestro. Questo nuovo approdo mostra da subito le sue stranezze, i suoi incantesimi: «La zona produce un campo magnetico che impedisce l’uso dei moderni sistemi di comunicazione, obbligando ad avvicinarvisi solo a motori spenti; né è previsto l’utilizzo di mezzi a propulsione o, men che meno, altre diavolerie atte all’automatismo. Ecco perché Leo da subito ha issato le vele con orgoglio sperando nel favore dei venti e dello spirito stesso del suo sogno» ed esibisce quell’aleatorietà, quella raggiungibilità selettiva, che evoca una realtà per iniziati, gravida di doni, grazie maliarde, precetti occulti, formule rituali.
L’isola come cerchio magico che attrae e respinge, che cattura e perde i suoi visitatori è una suggestione che pervade la letteratura da secoli: un altrove fatato, un grembo di delizie, che contiene però nel suo essere spazio altro, chiuso al mondo, un seme di inquietudine: suolo stregato, dalla natura lussureggiante, abitata da specie faunistiche policrome e clamorose, che danno spettacolo di sé nel loro essere mansuete e consolatorie, oppure aggressive in un modo altero, circense, selvatico.

Gli antecedenti del topos dell’isola sono innumerevoli, e assumono via via la connotazione della nostalgia e dell’eterna pulsione al ritorno (Itaca), del luogo che appare beato ma in realtà è irto di pericoli (l’Ebuda di Ariosto), che stordisce e pericolosamente seduce con l’oblio (l’isola dei lotofagi di Omero); ma l’isola è anche un non-luogo temporale, separato e protetto dalla storia, e dunque possibile sede di sperimentazione, dove si possono abbandonare le convenzioni cristallizzate, di natura familiare, politica, sociale, economica, per dare origine a una nuova realtà umana, che è ripartenza e ricerca, e dove tutto diviene utopicamente sovvertito, fresco e sorprendente; un teatro di esistenze dove la definizione di ogni individualità si polarizza in modo spontaneo sull’asse necessità- felicità, in piena armonia con la natura e gli altri esseri viventi.

Nell’Utopia di Thomas More il territorio insulare naturale diveniva cornice di un ambiente urbano ideale, pervaso dal principio razionale di organizzazione, che finiva per ordinare ogni particolare della vita quotidiana dei suoi abitanti; ma è questa la parte nevralgica in cui l’ambiente utopico mostra da sempre le prime incrinature, nella paura del decadimento dovuto alla contaminazione, nella chiusura a un mondo esterno (o a un mondo interno di intima, individuale ribellione) con cui è in dialettica ostile, perché esso incombe sull’ordine, ed è minaccia cui ci si può opporre solo con una rigida regolamentazione.

E ancora, di isole incantate – nell’accezione bipolare del termine: incanto e pericolo, meraviglia e perdizione, libertà e coercizione – ci hanno parlato con sincero afflato etico o con ironia, a volte persino con i toni del dramma sociale o filosofico i bravi Defoe, Swift, Melville, Golding, Ortese, Morante fino a Umberto Eco e innumerevoli altri. Isole immaginarie, irraggiungibili, apparentemente disabitate o abitate da creature mai esperite, dove tutto è a portata di mano o dove tutto è negato, dove un nuovo assetto rende tutti migliori o peggiori.

Bonetti non si distacca da questa tradizione, ma anzi riunisce molti di questi elementi, e ci regala un lungo racconto variegato, iridescente, popolato di numerosi personaggi astrusi, ambigui, sibillini; a volte teneri, più spesso spietati nel loro aver compreso tutto senza voler veramente dire o spiegare al nuovo arrivato; perché, come sempre accade, non è con la parola che una verità può essere trasmessa, ma solo con l’esperienza alchemica dello stupore, dell’enigma, del percorso. L’esperienza del protagonista Leo – l’omonimia pare evocare un alter ego dell’autore, ma questa è pura illazione – è viaggio surreale e metafisico, intriso di misteri e di domande, in cui modi e toni cambiano nel corso della narrazione, e la prosa via via si infittisce sempre più verso il simbolismo e la speculazione filosofica.

L’isola è reale, questo è senza dubbio, piena di stimoli sensoriali e di bellezze quotidiane, sincere:
«C’è un gran movimento, lì, e uno sferragliare di carriole con sacchi di tela grezza colmi fino all’inverosimile. E un odore di caffè, di spezie, di mercato; in ogni luogo un’ombra che si muove, un colore fuggevole, una macchia prima rossa, poi verde, morente in un barbaglio sotto al sole. I bambini, schiamazzando, corrono dietro gli angoli e per i vicoli; le donne, pazienti, li guardano dalla soglia di casa con un sorriso indulgente; hanno facce

di porcellana, forti come piatti. Poi il piccolo gruppo sale per uno stradello dal lastricato irregolare, fatto di pietre scabre e scanalate».
Ma è anche un luogo la cui esistenza dipende da una particolare disposizione, accettazione, propensione all’abbandono del razionale:

«...finalmente l’isola. Ed è proprio allora che, di fronte agli scogli affioranti sul mare, egli avverte per la prima volta un sentimento sconosciuto, a metà tra l’affetto risorgente e una memoria dimenticata. L’isola esisteva anche prima, va dicendo a sé il nostro Leo, sebbene sia chiaro che nessuno ne mostri consapevolezza. In fondo basta un piccolo sforzo e ciò che appare lontano diventa di nuovo vicino, vivissimo, immortale come una cosa che sembrava persa per sempre. È l’uomo a non avere memoria dell’isola, immagina Leo; mentre l’isola, invece, non fa che attendere un suo pensiero come chi ha vissuto tutta la vita nell’incertezza [...]. L’isola è vissuta nell’attesa d’essere riconosciuta, canticchia ora contro il rumore del mare, ed è sempre pronta a passare dall’immortalità al tempo più breve del suo destino [...] Perché Leo è personaggio finora più di ogni altro docile a tutto tranne che alla propria verità. E forse è giunto sin qui proprio per questo».

L’atmosfera, va detto, è a tratti inquietante, per la distonia tra gli eventi e lo spirito che li anima: l’abbattimento del grande olmo ha qualcosa di dionisiaco, un senso di necessità inspiegato, una festa sfrenata, ridente, che inneggia alla vita e alla morte insieme: «Quale taglio è mai questo?, si chiede Leo. Perché colpire l’albero da ogni lato sperando che Aldina si sfili prima della caduta? E se venisse giù proprio da quella parte per una strana legge della fisica?, immagina con raccapriccio. Ma Aldina ama il suo albero tra gli altri più terribili, ed è per questo che accompagna ogni colpo con un riso cristallino». La natura sull’isola sembra animata da presenze intrise di sortilegio, di incanto-disincanto, richiama quel sapore che Buzzati aveva dato al suo Bosco vecchio, pieno di geni, alberi viventi e animali parlanti; allo stesso tempo si sente il sapore del percorso sofferto di formazione tra arcani aggrovigliati e penose delusioni, che Morante aveva trasfuso nell’Isola di Arturo, e la malia allucinatoria dell’Iguana di Ortese viene richiamata in modo evidentemente intenzionale – non si può davvero pensare altrimenti – nella indocile Isolina, ospite dei bizzarri e anziani coniugi Poyka: creatura preistorica e ipnotica che spasima d’amore per Leo dal suo rettilario d vetro «posto in mezzo allo stagno dove un’infinità di carpe, ninfee e germani fanno da corte variopinta».

Il protagonista sull’isola va incontro alla sua sofferta iniziazione: tutti conoscono misteri che aleggiano come evidenze allegoriche nell’aria, ma che nessuno può spiegargli con chiarezza, secondo un linguaggio terrestre: il Dottor timido e il pudore di essere umano, la vergogna della parola e dello specchiarsi, la strana usanza di sapore tribale secondo la quale ogni madre cede il suo nuovo nato alla compagna successiva del padre, affidandogliene la tenerezza, la compagnia, l’educazione; il pozzo d’avorio, i tesori segreti, le farfalle, la metafora della discesa dentro sé, nei propri anfratti bui e stagnanti, fino a recuperare il senso e la bellezza di tutto. E ancora le riflessioni su governo e ribellione, l’immagine sfuggente della mongolfiera fantasma, gli sforzi di comprensione, la casamatta, il necrolario, i piccoli paesi nella vallata. Ogni personaggio, ogni luogo ha qualcosa da raccontare e da trasmettere, secondo un messaggio cifrato che porta Leo vicino a una verità meno idilliaca di quella che all’inizio, tra paesaggi tersi e suggestioni edeniche, gli era parso. L’eroe dovrà fare un percorso solitario, in salita, dove gli verranno concessi solo ammiccamenti, strane delicatezze, racconti giocosi ma pieni di malizia cui si alternano saggezze improvvise e corrucciate, inappellabili serietà bambine, enigmatici sorrisi, imperturbabili mutismi dietro serenità olimpiche.

Avvicinandosi infine all’inafferrabile verità dell’isola, iniziando a scorgere chiaroscuri e fenditure che prima non vedeva, Leo avverte il nascere di una nuova consapevolezza, cui

fa da controcanto un’opacità che odora di incantesimo, secondo le più radicate tradizioni della fiaba popolare.
L’isola che non c’eraè una narrazione originale, inaspettata, che sfugge alle classificazioni di genere: non è utopia né distopia, non è un libro d’avventura né di pura introspezione; è piuttosto una riflessione inquieta, intrisa di tensione filosofica e di faticosa ascesi, in cui la meditazione antropologica si fa ricca di pietà e indulgenza, perché conscia della ferita primigenia della specie: la comune – spesso vana – ricerca della speranza; è così che il racconto diviene fiaba metafisica, profondamente allusiva, in cui i personaggi sembrano tarocchi, e i paesaggi il sipario cangiante di un teatro allegorico.


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LaRecherche, 9 aprile 2021, a cura di Mattia Rosenberg

Ogni giorno trascorreva e si ripresentava a me stesso, che trascorrevo mutandomi da un posto all’altro: il giorno ed io avevamo gli stessi compiti e gli stessi problemi. Ero affiatato con ogni cosa che capitava intorno a me, che fosse pure un albero che si piegava o la figura orribile di una nuvola che agiva sopra le colline. (“La macchina mondiale”, P. Volponi)

 

Sarebbe veramente bello e affascinante raccontare di questa misteriosa isola, emersa dalle acque tra la Sicilia, Malta e Lampedusa, passeggiandoci sopra. Si potrebbero anche intessere paralleli tra questa e quella di Robinson, o di Arturo, creando un arcipelago letterario fatto di sorti comuni, dissidi da cui fuggire e territori su cui essere i primi a posare lo sguardo. Inoltre, chi ha suppergiù la mia età ricorderà un vecchio telefilm, L’isola delle cavallette, ed è proprio quest’ultimo a rivelarmi l’arcano bonettiano. L’isola delle cavallette è, nella mia memoria, ridotto a qualche manciata di suoni e immagini, la trama si è persa, o forse non c’è mai stata, non ricordo esattamente. Però resta come luogo in cui c’è parte della mia infanzia, è una traccia di quel che sono stato, c’è un me nell’atto di guardare quell’isola, immaginandomela. Da qui mi sono detto: L’isola che non c’era, forte della negazione del titolo, non c’è proprio, è solo un luogo che l’infanzia ci riconsegna dai flutti dei ricordi. A suffragio di questo pensiero c’è il nome del protagonista: Leo, dietro al quale non è difficile scorgere l’autore medesimo che si chiama infatti Leonardo. Le sillabe mancanti tra il nome del protagonista e quello dell’autore rappresentano l’incompletezza, il cammino che Leo deve ancora percorrere per avvicinarsi a essere un uomo maturo e completo quale l’autore è. E in particolare, ritengo che in questa differenza risieda proprio la scrittura, intesa come dono o attività. Attraverso la scrittura, l’esercizio dell’arte romanzesca, Leo può acquisire una vista privilegiata su ciò che lo circonda e un modo di vedere, con i sentimenti e la fantasia, in grado di allontanarsi dalla realtà conosciuta, la quale resta come un miraggio tremolante all’orizzonte dell’isola mentre questa si popola del reale, cioè della realtà quando viene agita e non solo pensata.

A mio avviso L’isola che non c’era non è un romanzo isolano, non è ambientato nel Mediterraneo, insomma quella Laga è come la mia isola delle cavallette, semplice custode dei ricordi, ma intangibile. L’isola che non c’era è infatti, a tutti gli effetti, un romanzo mitteleuropeo, di terre lontane dal mare, che del mare hanno una visione, una fantasia, un rifugio segreto. Il luogo dove sorge l’isola potrebbe essere più o meno sulle rive dell’Inn, o ai confini tra Austria, e Svizzera, in una vallata che si allunga fino al villaggio di Traich, o un colle che sovrasta Attnang Puchheim, dove non è difficile incontrare Wertheimer, il famoso soccombente narrato da Bernhard.

Così, dopo le delusioni, ma soprattutto dopo la lacerazione del legame più profondo, Leo si imbarca sul peschereccio proprio come il piccolo Austerlitz, narrato da Sebald, viene messo sul treno che lo porterà via da una lacerazione profonda. Il distacco di Leo lo porterà sull’isola così come Austerlitz, dopo varie vicissitudini, approderà a Londra, in una villa circondata da un giardino e affacciata sul mare, che potrebbe benissimo essere la leonardiana casa dei Poyka con il loro orto. Le conseguenze che Austerlitz vivrà da quel distacco lo porteranno poi ad avere un rapporto singolare con alcuni edifici in cui passano numerose persone, edifici in qualche modo capaci di restituire una sorta di tessuto sociale, ancorché momentaneo e instabile. Tali luoghi, non comuni, o “sociali”, sull’isola di Bonetti, esente da ospedali e tribunali, non ci sono ma si incarnano ad esempio nel Necrolario. Dunque l’isola, come l’Europa centrale dopo la distruzione e lo sconquasso, si illude di vivere una nuova condizione pacificata, ovvero di illusoria pace. Ma c’è un elemento che si insinua, questa pace è resa instabile dal fatto di essere basata su qualcosa che si è dimenticato, il libro, la cui sparizione dà vita all’isola, potrebbe essere la memoria storica di fatti che hanno dato vita alla nostra società ma che la rendono contemporaneamente rocciosa ed effimera.

C’è un quadro di Max Beckmann, Prima del ballo in maschera, del 1922, in cui sono raffigurati dei personaggi in attesa in una stanza. Il quadro fa parte della corrente pittorica detta “Nuova oggettività” che si distanziava dalle correnti e dagli influssi modernisti e astratti per recuperare tratti più classici. Una sorta di recupero di stili precedenti l’irruzione del cubismo, ormai divenuto troppo alla moda e quindi considerato lontano dalla gente e dalle idee rivoluzionarie dell’epoca. Quindi, questo stile e il quadro in oggetto sono caratterizzati da una maggiore attenzione alla figura umana e con tratti che, escludendo gli stili più recenti, si rifanno a forme più “classiche”, una maggior riconoscibilità del soggetto, sebbene contraddistinto da una grande potenza descrittiva ed evocativa. Come non sovrapporre questo stile alle parole di Bonetti, così attuali ma nutrite dalla letteratura forte del Novecento, evitando stili alla moda o attuali ma effimeri. La potenza evocativa è quella delle parole dense e terrene di Buzzati e di Gadda, hanno la levità dell’immaginazione della Ortese, sono leggerissime ma si rinforzano nella cadenza, come accade in Bernhard. E, dunque, quando Leo passa la sua prima serata conviviale sull’isola, incontra alcuni personaggi che vi abitano, apprende gli usi del luogo, la scena raffigurata nel quadro di Beckmann prende vita. I volti sono descritti con pennellate forti, precise ma simboliche, cariche di una conoscenza che viene da basi solide e non si lascia liquefare dai vezzi della moda. Nel quadro, e nella scena narrata, vi è l’attesa di qualcosa di sereno, forse di utopico, una festa in maschera, o l’indomani vissuto nell’isola da cui dolore e ingiustizia sono banditi, una sorta di realtà mascherata, anche se, come si sa, l’effetto principale di una maschera è quello di essere rivelatore. Ma osservando più attentamente dietro l’attesa dell’immediato, che potrebbe anche essere felice, s’intravede una catastrofe, una tragedia annunciata o presentita, per esempio la tela di Beckmann trasuda la paura per quanto stava iniziando ad accadere in Germania.

E questa sensazione di pericolo imminente, la festa, il bere e il gioire, insieme, fanno presagire un destino alla Katharina Blum in cui tutto si ritorce contro la protagonista.

La narrazione prosegue e si giunge di fronte a un pozzo, in cui bisogna discendere per vedere una collezione di farfalle. Ovvero, malgrado l’isola si erga sulla linea delle acque c’è bisogno di scendere, di toccare il punto che, prima dell’emersione, segnava il suo limite. Il ricordo del luogo da cui si proviene e verso cui si rischia di tornare. Ma è anche il primo segnale chiaro dell’aspetto occulto dell’isola, la dimensione buia e sotterranea, la discesa nel pozzo – che è anche simbolo alchemico – per vedere una collezione, sostanzialmente di cadaveri. Esseri appartenenti alla dimensione aerea della luce e dei colori sono conservati in teche appannate, la memoria conserva ma sbiadisce; da qui Leo deve fuggire, dal sapere del dottor timido, dalle sue collezioni che mascherano, con un esile diaframma, il vuoto che sembra dilagare malgrado l’isola sia piena di vita.

C’è nel romanzo un afflato ortesiano, in cui l’autore rivela una delle sue radici sottolineando la vocazione a quel realismo magico che ci fa subito pensare alle generazioni perdute di Bontempelli, al vuoto che si spalanca quando i passi sono appesantiti dal ricordo e il futuro rappresenta qualcosa di pauroso. Ed è nel tocco di Bonetti sulle cose semplici che si rivela il suo realismo magico, ogni oggetto, pietra, albero sull’isola, toccato dalla voce narrante, descritto dalla minuziosità linguistica dell’autore diventa magico sotto gli occhi del lettore, sembra spogliarsi del suo aspetto terreno e ammantarsi di significati, assumendo così un aspetto imprevisto e del tutto nuovo, in bilico tra il conosciuto e il possibile. E fin qui dardeggia il quadro di Beckmann ma una passerella che cade rompe l’incantesimo, è tempo di futuro, bisogna muoversi. Inizia il viaggio di Leo alla scoperta del segreto dell’isola, attraverso alberi e cime il protagonista cerca la sua Wolfsegg, vuole dare un senso al dolore del passato annodandolo al futuro.

Musil ci fornisce una efficace descrizione per gli abitanti nel momento in cui Leo decide di abbandonare il villaggio che l’aveva accolto. Era forse il loro destino che ai loro occhi quella vita estatica, il cui specchio appare incrinato sotto la vita ordinaria – pur tenendosene lontani – e se cercavano il simbolo grossolano della cancellata (sull’isola la cancellata è un muro che separa due giardini ormai abbandonati) lo facevano col desiderio di mettersi ancora una volta alla prova… (da “L’uomo senza qualità”, di R. Musil). “L’uomo senza qualità” ci ricorda l’appartenenza geografica del romanzo, come detto, e mi aiuta a introdurre l’elemento che contraddistingue Leo e che pare essere assente negli isolani: il desiderio. Leo desidera: sapere, muoversi, scoprire, mentre agli altri, tranne forse a due, il desiderio è sconosciuto, o rimane inespresso. Questo è quello che muove i passi di Leo, ma soprattutto lo rende umano, degno di svelare i segreti della vita (la Casa delle Gravide) e della morte (il Necrolario), confini emblematici, tracciati i quali Leo può evincere le coordinate della misteriosa casamatta, luogo ignoto o dimenticato, metaforico e simbolico ma totalmente estraneo, non uguale, dissimile a qualunque altro posto presente. Ed essendo l’isola diversa da qualunque altra terra, ecco che la casamatta si trasforma nel punto debole: anch’essa ha qualcosa che la accomuna a ogni altro luogo, ovvero la sua condanna. Come dice Musil Di metafora si dice anche che è un’immagine. E anche di un’immagine si potrebbe sempre dire che è una metafora, ma nessuna delle due è un’uguaglianza. E appunto perché appartiene a un mondo regolato non dall’uguaglianza ma dalla similitudine, si può spiegare la grande forza di sostituzione, l’effetto imponente di imitazioni oscure e poco somiglianti… (da “L’uomo senza qualità”, di R. Musil). Dunque l’isola si rivela per quello che è: un salone il giorno dopo un grande ballo in maschera, metafora, neanche troppo velata, che descrive il cuore dell’Europa in due momenti, al termine della Seconda guerra mondiale, oppure lo stesso luogo ai giorni nostri, un continente che, dopo l’ubriacatura di fine Novecento, si ritrova a fare i conti con un presente contraddittorio e capace di fare affondare tutti tra i flutti irati della Storia.

L’isola che non c’era rappresenta efficacemente il potere e il ruolo del ricordo, come sostegno dei nostri giorni e come monito a non ricadere nei conflitti e negli orrori causati da guerre, razzismo e discriminazione. Anche perché sembrerebbe che talvolta il ricordo stesso rischi di finire dietro una teca appannata sul fondo di un pozzo, anziché rifulgere e guidare. E non basta dire che le divisioni e le ingiustizie sono sparite solo perché non ci sono tribunali, ma bisogna assicurarsi che lo siano veramente, dovunque, e non coltivate per fini e interessi che spingono la società sull’orlo del baratro, o dell’inabissamento. Il nostro Leo raccoglie invece gli elementi vitali dell’isola: il ricordo e la solidità del linguaggio, la coerenza del sentire, l’ideale della costruzione in armonia con la natura. E lo possiamo immaginare, dopo decenni, passeggiare ancora sulle rive dell’isola con un sacco sulle spalle pieno di materiale raccolto negli anni e per ogni luogo del paesaggio far risorgere dal passato e proiettare verso il futuro quel che rappresenta. Sebbene Probabilmente sono ricordi sepolti, quelli che generano la strana realtà iperbolica di quanto si vede in sogno (da “Gli anelli di saturno”, di W. G. Sebald) e sicuramente ci saranno momenti in cui il nostro Leo si troverà a mormorare: C’erano attimi in cui mi sentivo in grado senza alcuno sforzo di penetrare con lo sguardo nella creazione, che altro non è se non un’immane estenuazione. «Attimi» dissi. (da “Perturbamento”, di T. Bernhard).


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Leggere Tutti, aprile 2021, a cura di Alessandra Sofisti

Inizio folgorante, quello del romanzo di Leonardo Bonetti. Il lettore viene subito catturato non solo da una scrittura al limite della perfezione, quasi aulica, perfetta nelle descrizioni.

Emerge subito con forza il desiderio di continuare la lettura per entrare a far parte di coloro che "avendo avuto la fortuna di raggiungere le sponde dell’isola venuta dal mare, sono accolti da gruppi di

marinai col cappello di feltro e nessuna cerimonia particolare ... l’isola è un luogo per pochi, dove l’integrità del corpo e dello spirito è condizione imprescindibile per essere ammessi a far parte della comunità". A Leo, il protagonista, è entrata nel cuore e nella mente e, abbandonando tutto, un giorno salpa, imbarcandosi sul peschereccio Pisanello. Dopo tre settimane di viaggio, ecco l’approdo. Da qui in poi la trama del romanzo si "inerpica" sulle impervie vie del racconto distopico, quasi fantascientifico. Come spiega nella postfazione Antonio

Prete: "un racconto che si sottrae agli schemi narrativi del genere fantastico per diventare un romanzo utopico, un racconto dell’altrove".


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Libri e dintorni, 4 aprile 2021, a cura di Maria Pia Pintus

Quest’isola non c’era. Non compariva nei portolani, immaginosi resoconti redatti dagli equipaggi del secolo decimosesto. Né in seguito nelle descrizioni dei mercanti o degli avventurieri che solcavano il Mediterraneo a loro rischio e pericolo. Né, è ovvio, nei trattati dei cartografi inglesi o spagnoli; mai si lesse di terre che interrompessero quel tratto di mare chiamato della Laga, già crocevia delle correnti tra l’isola di Malta, Lampedusa e Mazara in un luogo pensato, si sarebbe detto, al centro di un triangolo troppo difficile. Niente. Tranne le dicerie. E la certezza, di converso, che l’isola fosse dilagata nove anni prima, nel giro di poche ore. Così che da allora apparve davvero difficile resistere alla tentazione di immaginarla salire dall’abisso tra il mulinare delle correnti.”

Ecco qui comparire dalle prime parole del romanzo, ex abrupto, la protagonista di questo interessante romanzo metaforico che irrompe con forza già dal titolo, “L’isola che non c’era” di Leonardo Bonetti.

Il lettore sin dall’incipit è iniziato a questo mistero, un’isola che non c’era, che improvvisamente emerge dalle acque dell’Adriatico, di cui si parla in un libro ancora più misterioso, ormai disperso e che nel romanzo si dice sia stato proprio il suo oblio a permettere all’isola di nascere.

L’isola è una meta che non a tutti è permesso di raggiungere: la difficoltà è già insita in fenomeni magnetici della zona, e i pochi che riescono nell’impresa,  se ammalati, vengono espulsi e devono subire da parte dei residenti un’incresciosa quarantena perché

è possibile rimanere solo a seguito d’una sicura guarigione, visto che l’integrità del corpo e dello spirito è condizione imprescindibile per essere ammessi a far parte della comunità.”

Dopo la presentazione dell’isola, ecco che facciamo la conoscenza di Leo, il personaggio principale del romanzo, attraverso gli occhi del quale, il lettore conosce man mano l’isola. Leo è un ragazzo proveniente da una regione dell’Italia Centrale, che dopo essere stato abbandonato improvvisamente dalla sua fidanzata, letteralmente scomparsa dalla città in cui viveva insieme alla famiglia, decide di cimentarsi nell’impresa di raggiungere l’isola attratto dalla sua aura di mistero, ammaliato dalla ricerca di un luogo dove poter rinascere. Con mezzi di fortuna riesce nell’impresa e qui scopre una società dove regnano la giustizia e la libertà, mentre le malattie e altre negatività sembrano assenti. Guidato dalla sua curiosità, farà la conoscenza di personaggi che subito colpiscono la curiosità dello stesso lettore: Andina, una giovane fanciulla fidanzata a Giorgino, che con la sua determinazione e leggerezza tipica dell’età, lo affascina; il misterioso Dottor Elwin o Dottor Timido con la sua compagna Judith, che gli accenna a qualcosa di segreto che cela l’isola senza soddisfare mai la sua sete di conoscenza e infine la coppia ancora più misteriosa dei Poyka; tutte persone, anch’esse fuggite da una realtà dolorosa, alla ricerca come Leo di un luogo di pace.

Estremamente emblematico a mio parere è il dialogo che Leo e il Dottor Elwin hanno a proposito del pozzo, dove il dottore in una delle passeggiate lo porta per mostrargli la collezione di farfalle

“Credo che sia un pozzo molto profondo, comunque. A volte, quando scendo laggiù e mi cade qualcosa – un accendino, che so – non sento alcun rumore dal fondo».
«Scende nel pozzo?».
«Sì, non si sente nulla, laggiù, gliel’ho detto. Gli oggetti cadono, ma io aspetto inutilmente. Si potrebbe dire che la loro sia una caduta senza fine. Ma poi ci sono le mie farfalle e allora…».
«Le sue farfalle? Scende per quelle?».
«No, non proprio. Diciamo che laggiù riesco a distinguere meglio le cose di quassù. Anche se non si vede niente, gliel’ho detto, a parte le farfalle; e comunque varrebbe la pena già solo per questo. Scendere e salire sono un ottimo esercizio dello spirito, oltre che del corpo.”

 

Leo, dopo i primi giorni di immersione in una realtà che soddisfa tutte le sue attese, viene colto da una sorta d’inquietudine e piccoli germogli di perplessità vengono seminati nel suo animo: come si regge la giustizia dell’isola? Chi comanda?Cos’è il Necrolario e la casamatta, a cui fa ogni tanto qualche accenno il Dottor Elwin? Perché i bambini che nascono sull’isola non vengono cresciuti dalle loro madri ma ceduti ad altre donne?

Il dubbio sempre più forte che l’isola celi dentro di sé dei segreti terribili lo angoscia in maniera dolorosa, ed è così che alla cieca, comincia un lungo viaggio verso la parte sconosciuta di questa terra e scoprirà, man mano che si addentrerà, sempre più cose di essa che sgretoleranno il suo mito, fino al finale, spiazzante a cui ogni lettore  reagirà in base a ciò che nasconde nel suo inconscio.

Il lettore leggendo questo romanzo e immedesimandosi in Leo, diventa Leo stesso e con le domande che questo personaggio pone e il viaggio che decide di intraprendere verso la fine del romanzo, è il lettore stesso che inizia un viaggio dentro di sé alla ricerca del  mistero che vuole essere svelato ma che come quei sogni fatti quasi al risveglio, si rivela sempre in qualche modo inafferrabile, nonostante l’impegno che ci metta.

Questo è un romanzo metaforico e filosofico che ha forti rimandi alla più raffinata letteratura novecentesca (come non citare L’iguana di Anna Maria Ortese ad esempio) che con la sua scrittura fortemente surreale ed evocativa cattura l’attenzione del lettore, nonostante non sia di facilissima lettura, non certo per lo stile dell’autore, ma perché il lettore è come se venisse faccia a faccia con la realtà intrinseca di se stesso e questi incontri si sa, non sono mai facili.

Questo è uno di quei libri, che come l’isola di cui parla, alla fine della sua lettura fa riemergere in qualche modo, non più gli stessi, modificati nell’animo, pieni di domande che forse non avranno mai risposte ma l’importante è porsele, come fa Leo nella storia, perché la conoscenza seppure solo intuita  con l’isola dentro di noi,  è un percorso d’obbligo per una crescita spirituale, con tutti i rischi che può comportare.


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Pangea, 31 marzo 2021, a cura di Davide Brullo

LO SCRITTORE COME AMABILE DELINQUENTE. DIALOGO CON LEONARDO BONETTI

Non apparteneva a questo mondo, mi pareva lunare, pietrificato dentro diverse infanzie – ha ancora i capelli lunghi, come allora. Era il 2009, a Milano, negli uffici – all’epoca – della Marietti: lui esordiva con un romanzo molto bello, Racconto d’inverno, io con un altro – e tremavo come una spada di fronte al futuro, all’alveare delle possibilità. Parlammo di Tommaso Landolfi, di Tarkovskij, il regista; veniva dai meandri del metal, il suo gruppo, gli Arpia – che esistono dal 1982 –, gode di una solida, sotterranea fama. Straniero alla letteratura, con uno stile arcano, di antico candore, Leonardo Bonetti mi fu subito amico, istituii una fraternità tra esuli, tra solari transufughi. Con Marietti completò il progetto romanzesco – quasi una cattedrale romanica – che comprendeva Racconto di primavera (2010) e Racconto d’estate (2012), mentre dal primo romanzo aveva tratto un disco. In un tempo che pare il multiplo dell’arcano, gli chiesi di tradurre il libro del profeta Daniele: ne fece un’opera lirica, cioè musicale – e una meraviglia che giace, per ciò che ne so. Ci dileguammo sulla morgana di una promessa; Bonetti ha continuato a scrivere, come si deve, in un suo modo latitante all’ovvio – nel 2012, con A libro chiuso pubblica la cosa più bella – raccogliendo elogi (tra i tanti, quelli di Walter Pedullà e Antonio Prete). La sua sorniona inquietudine lo ha portato, cinque anni fa, a firmare un film, Un amore rubato. Percorre le avventure per un destino devoto alle candele, Bonetti: l’ultima è un libro-amuleto, L’isola che non c’era, pubblicato con Il ramo e la foglia edizioni, pieno, come sempre, di figure tra fiamme d’ombra, di agnizioni (“La donnola, sulle prime, resta immobile come a voler perdere l’ultima occasione; ma non si fa in tempo a pensarla che è già via… Il mistero è sempre sotto i nostri occhi, ma a pensarlo non si trattiene. Perché sembra immobile, ma non lo è mai abbastanza”). È un libro fuori tempo, questo, con ruggine d’oro e una incauta fiducia nella narrazione (“Quest’isola non c’era. Non compariva nei portolani, immaginosi resoconti redatti dagli equipaggi del secolo decimosesto. Né in seguito nelle descrizioni dei mercanti o degli avventurieri che solcavano il Mediterraneo a loro rischio e pericolo”: così comincia, al crocevia dell’avventatezza). Come fosse scritto in margine a un codice medioevale che censisce le diverse morti di Atlantide, sparpagliando il rischio a bocconi, una fame bianca. (d.b.)


Partiamo da qui. Che cos’è il libro? Perché dare forma al libro?

Ho sempre pensato che il libro è già dotato di una sua forma, e che deve essere liberato dalla materia di cui s’è ricoperto nel tempo. Occorre trovarlo, innanzitutto, perché esso esiste già: vive sommerso, nascosto. Il compito dello scrittore si sovrappone allora a quello del curatore, colui che estrae mandorle dal fango e le ripulisce togliendo ciò che vi si è depositato sopra, per traghettarle dall’informe a una forma originaria. È un lavoro da fare nottetempo, furtivamente, come un amabile delinquente che ruba un po’ dell’infanzia del mondo contro il numero e la nevrosi dell’oggi.

Da dove nasce l’isola del tuo libro, da quale ispirazione?

In realtà questo romanzo è legato indissolubilmente a un’altra isola della mia scrittura, e più precisamente un piccolo volume pubblicato nove anni fa, A libro chiuso, sorta di manifesto e meditazione in prosa poetica. In fondo, ogni opera è un’isola, a mio modo di vedere e, al tempo stesso, un mondo in movimento. Perché l’arcipelago della scrittura è fatto di emersioni che rivelano la rotta verso cui stiamo andando. Così che se ci voltiamo e vediamo le nostre isole, i nostri libri, il cuore è più contento di prima di riprendere il viaggio in un mare tanto sconfinato da togliere il respiro. Tuttavia altre suggestioni hanno agito durante la gestazione del romanzo, e mi riferisco ad esempio agli echi letterari de l’Utopia di Tommaso Moro o L’iguana della Ortese; oppure alla materia mitica e leggendaria dell’Atlantide; o, infine, alle cronache del XIX secolo che raccontavano la storia dell’isola Ferdinandea, sorta e poi scomparsa nel canale di Sicilia dopo essere stata contesa da francesi, inglesi e borbonici. A dimostrazione che quando il potere cerca di possedere l’isola o ciò che l’isola rappresenta di più vivo e di più autentico, essa diviene nuovamente inafferrabile. Bene, da tutto questo e da altro ancora, come un materiale composito di riflessioni, storie e immagini, è nato questo mio ultimo romanzo.

Lui è Leonardo Bonetti

Romanzo, poesia, musica, film… c’è come il tentativo di esaurire ogni esperienza retorica, ogni virtù estetica. Come mai questo vagabondaggio nei generi?

Sono una persona inquieta, che continua a cercare, non uno scrittore, un compositore o un regista. Mi viene alla mente Palazzeschi e la sua Chi sono?: un musicista, un pittore, un poeta? No: “io metto una lente/ davanti al mio cuore/ per farlo vedere alla gente”. In fondo scrivere vuol dire mettersi a nudo. Ma non si tratta né di vanità né di autoesaltazione retorica (come direbbe Gozzano: “io mi vergogno,/ sì, mi vergogno d’essere un poeta”). C’è al contrario un’urgenza, una necessità espressiva che risponde ad altri appelli. Non si scrive per l’utile, né si compone o si rischia la reputazione con improbabili esperienze cinematografiche per ottenere un premio da corrispondere ai giudici dell’estetico in cambio di un giusto compenso. Perché in questa ricerca inesausta, disperatamente festosa, c’è la risposta a un sentimento di carattere etico ed estetico che si fa via via più pressante. Cresce, questo sentimento, di fronte al richiamo – che alcuni sentono disperato, altri stupito – di un mondo sommerso e senza parola che supplica di essere detto. Ognuno di noi scrive, compone, si esprime in modo autentico sempre e solo aiutando l’isola a emergere dagli abissi in cui era sprofondata. Occorre una dose d’amore al limite dell’umano per proteggerla dalla corruzione e dal potere. Occorre una parola che si nutra della sua ombra e del suo silenzio. Occorre la parola della poesia non come genere letterario, ma come indole dell’umano che attraversa i linguaggi, tutti i linguaggi necessari a difendere il cucciolo dell’isola dalla sua perdizione.

Scusa ma… che fine hanno fatto gli Arpia?

Sono attivi negli scantinati della postmodernità, direi. Anzi, posso rendere pubblica una novità che sa di anni Ottanta: a maggio verranno pubblicati i nostri lavori di allora in versione restaurata, su vinile: editore spagnolo e distributore statunitense. Un riconoscimento forse tardivo di quanto di arrischiato tentammo in quegli anni tanto prolifici.


Cosa leggi? Qual è il tuo rapporto con la cultura del tempo, con gli altri scrittori italiani?

Che dire? Mi sento perfettamente inserito nell’oggi, ma a veder bene del tutto in controtendenza. Questo mio tempo lo considero con lucidità, ne registro gli errori, le mancanze. Forse perché me ne sento distante quel tanto che basta. Non leggo autori contemporanei, mi limito a scorrerli velocemente, quasi avessi poco tempo da dedicare a chi, non credendo in niente, scrive per qualche altro motivo, per qualche altro fine. Quando incontro un autore lo affronto con appassionata allegria, tutto qui. Sono un postmoderno che cammina nella direzione comune a tutti procedendo a ritroso. E questo perché cammino rivolto all’indietro, con la nostalgia del moderno. È il Novecento il bacino a cui continuo ad attingere senza risparmiare qualche puntata verso le meraviglie dell’origine e della tradizione: il Duecento, Ariosto, Tasso. Ma se la mia predilezione per il secolo scorso è indubbia, resta sempre al di qua della linea sottile che sta tra moderno e avanguardia. Scrivo seguendo le tracce del mio cammino come solo può uno scrittore degli anni Dieci, degli anni Venti. E segno le mappe di questo percorso come una poetica ricca di corrispondenze. Non mi avventuro al di là delle avanguardie, se non per osservare con dolore le macerie della disintegrazione dell’io e della morte della pietà. In questo nostro tempo riconosco nel grottesco della tecnica tutti i segni di una continuità con l’orrore del passato, di un vivere e morire nella macchina e per la macchina. Ma so bene, e allegramente, che solo di eclissi si tratta. Che dall’arte e dalla letteratura si alzano ancora voci purissime a cantare, in questa nostra postmodernità, il sentire dell’uomo, il suo patire insieme: Ortese, D’Arrigo, Mazzaglia. E ogni volta è una festa.

Perché ostinarsi a scrivere?

Non si tratta di ostinazione. È semplicemente impossibile smettere finché si continua a credere. Le due funzioni sono irrimediabilmente correlate. Forse dovresti rivolgere questa domanda a chi oggi scrive senza più possedere l’organo preposto alla fiducia. Io, per me, sono ancora troppo sprovveduto, troppo giovane e sensibile per ottenere la patente di cinico o nichilista. Lascio veleni del genere ad autori più maturi e smaliziati. Chi non ha un faro da seguire, nell’insoddisfazione che ne consegue, genera un po’ di rumore, qualche disturbo, nulla più. Sennonché, di qua da quella linea, resiste l’umano, la vertigine della natura e dei mari dove ancora ci si arrischia alla ricerca di rotte che dall’isola portano ad altra isola, dal libro ad altro libro.


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Gli Epicurei, 26 marzo 2021, a cura di laChiara

L’antiutopia. “L’isola che non c’era” di Leonardo Bonetti

L’isola che non c’era, romanzo di Leonardo Bonetti edito da Il ramo e la foglia edizioni, parte come una fiaba e finisce come la fine del mondo, o di un mondo o di tutti i mondi. O forse la fine delle percezioni, o del sentire, o della ricerca della verità.
Bonetti racconta l’utopia non come un orizzonte che si allontana al nostro avanzare ma, appunto, come l’isola del titolo, l’utopia diventa un qualcosa che compare all’improvviso e potrebbe scomparire portando con sé tutti coloro che vi abitano; e ancora più interessante è che gli abitanti non sono altro che persone che fuggono, personaggi inadatti, in un modo o nell’altro, a confrontarsi con il quotidiano. Sognatori, sì, magari romantici o anche simpatici, come il protagonista Leo, ma comunque fiacchi, in cerca di un altro mondo non per inquietudine ma per disadattamento, e allora si può andar lontano quanto si vuole ma da sé stessi non si scappa, e si va da insoddisfazione a insoddisfazione, fino a esaurirsi.

Credo che sia un pozzo molto profondo, comunque. A volte, quando scendo laggiù e mi cade qualcosa – un accendino, che so – non sento alcun rumore dal fondo».
«Scende nel pozzo?».
«Sì, non si sente nulla, laggiù, gliel’ho detto. Gli oggetti cadono, ma io aspetto inutilmente. Si potrebbe dire che la loro sia una caduta senza fine. Ma poi ci sono le mie farfalle e allora…».
«Le sue farfalle? Scende per quelle?».
«No, non proprio. Diciamo che laggiù riesco a distinguere meglio le cose di quassù. Anche se non si vede niente, gliel’ho detto, a parte le farfalle; e comunque varrebbe la pena già solo per questo. Scendere e salire sono un ottimo esercizio dello spirito, oltre che del corpo».

Prima di andare avanti a parlare del romanzo mi sembra doveroso precisare che io il concetto di utopia lo detesto, esattamente come detesto gli utopisti (e anche i distopisti cominciano a starmi un tantino sulle ovaie), perché li trovo gente che ragiona su un contesto rigido e teorico e non sul reale, sprecando inoltre un sacco di energia che potrebbe essere utilizzata per lavorare su di sé (o a fare qualcosa di veramente complesso e creativo) invece che a fantasticare su come dovrebbero (o non dovrebbero) essere le cose.
E dico questo perché quello che più mi è piaciuto de L’isola che non c’era è che l’autore evita di rovesciare la frittata trasformando l’utopia in un incubo, ma si limita a portare avanti l’idea di luogo da sogno libero da capi, politica e avidità per rivelarla come tomba per disadattati senza perdere in coerenza, ma anzi premendo l’acceleratore sulla completa autonomia del posto: il luogo da sogno che cerca di soddisfare le esigenze di ciascuno crolla sotto il peso di tutte le sensibilità, e si rivela triste.

Sa, a sentire i suoi discorsi dovrei convincermi che l’isola ha realizzato una speranza comune. E che già solo questo dovrebbe bastare a rendere felice chiunque. 
Eppure, glielo confesso, io non sento crescere in me nessun sentimento del genere. E non lo sento crescere perché, in verità, esso non è presente sull’isola. E nonostante la leggerezza delle cose e degli sguardi. Mi permetta di essere sincero, la prego: a me qui tutto sembra affondare.

Che poi la verità che sta cercando Leo alla fine è proprio questa, ed è sotto i suoi occhi fin dal principio, mostrata dall’autore attraverso uno stile fiabesco, moraleggiante, ironico, volutamente stracarico (ma che diventa asciuttissimo nei capitoli finali) e straniante: l’utopia non è un luogo in cui stare per sempre perché prima o poi bisogna crescere, maturare, venire a patti con l’instabilità dei sogni.
E il risultato è un libro non facile, talvolta addirittura ostico (soprattutto nei dialoghi, che non a caso spesso diventano soliloqui), ma capace di districarsi con originalità in una materia nerissima e lussureggiante.


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Mastica&Sputa, 17 marzo 2021, a cura di Giancarlo Visitilli


Se l’isolamento è interiore, fuori la scoperta è un arcipelago

E se il vero grembo, all’origine, era una terra sospesa, a cui ognuno, a un certo punto della sua esistenza, era destino che si potesse far ritorno, per scoprire il libro della propria vita, indotti dal vuoto e con l’unica direzione il vento, il mare e il sole?

È insolito, rispetto a tanto, troppo, di cui si scrive, il racconto del romanzo di Leonardo Bonetti, L’isola che non c’era (Il ramo e la foglia edizioni).

Si tratta di quell’isola riemersa dalle acque e da un libro segreto che ne raccontava la storia e la leggenda, da cui è possibile conoscere il valore della parola, soprattutto scritta, e della felicità velata. La libertà sta in ciò che si desidera e ottiene con le idee. Lo sa bene Leo, il protagonista, che passo dopo passo, respiro dopo respiro, avverte la sensazione di vuoto, di tristezza, e del vento freddo che lo trapassa, al modo degli alberi. Perché la libertà non è un cammino semplice, implica la conoscenza di ciò che è sommerso, affondato, ma capace di sostenere il giogo di ciò che all’apparenza libero non é. 

Con una scrittura fluida, al modo delle acque in cui il protagonista del romanzo si imbatte, Bonetti sostiene una storia molto intimistica e introspettiva. In fondo, Leo, dall’inizio alla fine, rimane un solitario, dalla vita ordinaria, perché, dopo essere stato abbandonato dalla sua amata, decide di imbarcarsi alla volta di questa terra sconosciuta. Ritrova la straordinarietà nell’ordinario. La società utopica in cui si imbatte, fondata sulla giustizia e dove non esistono furti né malattie, fa pensare alle città raccontate da scrittori come Tommaso Campanella, Rousseau, fino ai castelli kafkiani, col cui autore, è evidente che Bonetti condivide i rapporti spezzati (in Kafka si trattava del padre), con madri che non allevano i propri bambini, il Necrolario e la casamatta di pietra e cristallo nascosta sulla montagna. Tutto diventa enigma, con simboli e segnali dai contorni indefiniti, che fanno tutt’uno insieme alla stessa esistenza di Leo. Il pretesto per avvertire il lettore del duro travaglio del processo creativo, per ripararlo dalle ondate dell’incanto dell’immaginazione: “La distanza è lo schermo che ci protegge. Anche se l’isolamento è un prezzo alto da pagare, la liberazione della pena di vivere vale la rinuncia. Perché ci si libera solo smettendo di specchiarsi”. 

Quindi, l’isolamento può bastare per smettere di provare la pena di vivere? L’isola che non c’era risposte non ne dà, semmai acuisce quel senso del dubbio, attraverso un viaggio interiore in cui chiusura materiale, fisica ed emozionale sono isole dello stesso arcipelago: la ricerca della felicità. Liberi dagli schematismi sociali, dalle debolezze e paure. 

Una delle verità più interessanti che emerge dalle pagine del romanzo, e proprio mediante una storia di fuga, è l’impossibilità, restituita appieno al lettore, di fuggire dalla propria vita. Non può esservi evitamento, perché le intemperie vanno affrontate. Accanto ai vari personaggi che Leo incontra nella sua vita, tutti rappresentanti di valori o il loro contrario, non si possono evitare di affrontare: da Aldina, simbolo della lotta all’oppressione dell’animo, all’impotenza di Judith o alla resa del dottor Elwin. Leo li affronta tutti, sapendo che la cura è dentro di sé, nella sua isola interiore. L’unica esistente.

Bonetti lascia al lettore che decida un finale per il suo romanzo, ammesso che una fine sia ammissibile. Lascia le pagine aperte, perché il tragitto abbia la stessa caratteristica di quel mondo sospeso, l’isola “solida e intatta come un dente di cristallo”,ma in realtà ancorato a principi che vanno al di là delle leggi fisiche e naturali. 

Bonetti evoca con la sua scrittura, che appare refrattaria al superfluo, intrisa essa stessa di materia e mistero, utili per narrare una fiaba spirituale in cui il lettore compie un atto di fede e di fiducia, per affidarsi alla tempesta, quella che in qualche modo approda sempre allo stesso punto. Lo stesso da cui si pensava di essere solo partiti, non prevedendo i ritorni. Da naufraghi ridotti a comparse, trucioli. Pietre di scarto. “Creature inconcluse, sconfitte senza battaglia, colte da lieta disperanza, alla ricerca e all’attesa d’una resurrezione costantemente temuta”.


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Amanti dei Libri, 16 marzo 2021, a cura di Arcangela Guida


L’isola appare in un primo momento come il posto sereno in cui ognuno di noi vorrebbe vivere, lontano dalle ingiustizie e dalle umane disarmonie.
Ma aleggia in essa, un malessere angosciante,un’inquietudine sottile che si insinua nel corso della lettura fino ad invadere ogni molecola e contaminare il sangue del lettore.
Il tormento è il mal di vivere a cui l’essere umano sembra non riuscire a sottrarsi, o almeno mai del tutto, pur anelando disperatamente alla quiete.

La pace interiore, come quella tra i popoli, è fragile e noi custodi poco accorti e per nulla fidati. Ricerca della pace come fosse un’utopia, una stella che brilla lontana, verso la quale ognuno di noi, ha alzato lo sguardo almeno una volta nella vita, ma irraggiungibile… a meno che non si sia disposti a scomporsi in particelle volatili e percorrere un cammino lungo anni luce.

Ecco, l’isola rappresenta in un primo momento la serenità, poi la strada si fa impervia, senza segnaletica, spesso al buio e scomode arrivano le domande.
Perché le madri non crescono i loro figli?

«Dopo il parto, il più è fatto; partorire un figlio è già un carico al di sopra delle forze perché si possa sostenere anche l’onere della sua educazione». 

Cos’è il necrolario, si chiede Leo? Un luogo che nonostante la paura, egli non può fare a meno di visitare. 

“Un custode lo accoglie all’entrata introducendolo senza preamboli: nell’aula, più grande di quanto si aspettasse, i cadaveri se ne stanno allineati e ben composti in bare di cristallo. Sono lasciati in piena luce, con le prese d’aria nella parte superiore e le transenne a pochi centimetri per contenere i visitatori.
«Vengono per vedere gli esiti della vita» sostiene il custode.”

E la casamatta? Cosa spinge disperatamente Aldina e Giorgino alla fuga?

No! Con le sue rigide regole, no, l’isola non è il luogo perfetto che il nostro Leo si aspettava di trovare. Non è il luogo della verità  che peraltro sembra non aver valore assoluto. Come se ognuno, coerente con la propria sensibilità o con il proprio opportunismo, ne coltivasse una. 

“Il mondo seppure irreale, è ciò che, intimamente, deve continuare a ritenersi reale.“

Una lettura che porta con sé molte riflessioni e la consapevolezza che non esiste luogo ideale. Ogni luogo al pari del pensiero può assumere la forma di una prigione, sbarre alle finestre da cui filtra soltanto un lieve barlume, dove si spegne la volontà individuale e la facoltà di intendere con la propria coscienza, dove il pensiero si omologa e le frasi diventano frasi fatte, spersonalizzate e spersonalizzanti.

Lo stile è elegante e piacevole. L’atmosfera, al limite del surreale, contribuisce a definire il senso di smarrimento che regna sull’isola. Nessuna parola di troppo, nessuna parola mancante.


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La Bottega dei Libri, 10 marzo 2021, a cura di Alice


“L’ansia si estingue nel momento in cui ci si allontana, non trova? Me ne convinco ogni giorno di più. La distanza è lo schermo che ci protegge. Anche se l’isolamento è un prezzo alto da pagare, la liberazione della pena di vivere vale la rinuncia. Perché ci si libera solo smettendo di specchiarsi”

Ma fino a che punto l’isolamento libera la pena del vivere?

Una sola domanda, che dà luogo ad una miriade di riflessioni e altrettante risposte, una più diversa dell’altra e, magari, anche agli antipodi dell’altra. Ma sono proprio questi i pensieri che stimola L’isola che non c’era di Leonardo Bonetti, edito da Il ramo e la foglia Edizioni.

La casa editrice lo cataloga come “romanzo” e, a riguardo, nulla da dire, se non il fatto che qualificarlo così, a mio parere, è riduttivo. È, di certo, un’opera narrativa; e, di certo, racconta una storia fantastica; ma è anche un viaggio introspettivo alla ricerca del sé, disperso e scombussolato dai vortici in cui ci imbriglia la società contemporanea con le sue etichette, i suoi giudizi, le sue critiche.

Il protagonista è Leo, un uomo che risente proprio di tutto ciò. Una storia d’amore finita male (forse sarebbe più corretto parlare di doppia storia d’amore), un lavoro perso, un disagio sociale fortemente avvertito e un cartello con la scritta, a caratteri cubitali, CHIUSO. Nessuna parola può essere più eloquente di questa: chiusura materiale, fisica e, ahimè, emozionale. È in questo atarattico contesto che spunta l’isola: un posto di cui nessuno sa, le cui origini sono narrate in un testo scomparso (chissà); situato nella regione della Laga, oltre la Sicilia; e intorno al quale ruotano tanti miti e misteri.

Non chiedetemi come, ma dopo 5 mesi Leo è sull’isola, dopo un viaggio di ben tre mesi. Il narratore esterno, che racconta la vicenda, ci risparmia i convenevoli del viaggio e ci mostra Leo ormai giunto a destinazione. E qui ha inizio il suo percorso iniziatico (oserei chiamarlo) alla scoperta di se stesso e del senso che lui intende dare alla propria vita.

Cari lettori, non pensate a quest’isola come a quella di Peter Pan. L’isola rappresenta, allegoricamente, il desiderio di liberarci dagli schematismi sociali, dalle nostre debolezze e paure. Ma, al contempo, rappresenta anche la chiave dimostrativa per comprendere che dalla vita non si fugge e che le intemperie vanno affrontate, perché nel nostro cuore la forza c’è sempre. Vedete che definire L’isola che non c’eragenericamente “romanzo” è riduttivo?

Ma mi soffermerò, ora, sul lato tecnico per evitare di spoilerare troppo su una storia che vi consiglio di leggere. Il libro è suddiviso in capitoli piuttosto brevi: rappresentano dei flash dell’avventura di Leo. I personaggi che si incontrano non necessitano di chissà quali precise descrizioni: essi rappresentano, ciascuno, un vizio o una virtù della società. Non a caso, infatti, l’isola è proprio il rifugio per loro. Un rifugio che, però, si trasforma in altro…

Aldina, ad esempio, è il simbolo della lotta all’oppressione dell’animo; il dottor Elwin rappresenta la resa, come lo dimostra anche il giardino non curato; Judith l’impotenza. Ci troviamo dinanzi a debolezze che, sull’isola, anziché scomparire, come si era auspicato, si accentuano, imprigionando l’uomo in catene più resistenti di quelle ferree.

“Leo, osservando la sala piena di mobili, ha appena notato che non c’è una libreria, né un volume sugli scaffali. Mentre il dottor Elwin continua a sorridere vagando con lo sguardo oltre la finestra”

Leo fa esperienza di queste nuove realtà e matura: affronta in prima persona i disagi; incuriosito, cerca di capire e spiegarsi il perché di quanto accade; e, alla fine, comprende che non esiste un posto in cui ci si libera delle proprie difficoltà. Tutto si risolve dentro di noi.

L’epilogo mi ha alquanto spiazzata. In realtà l’autore non ci dà una vera e propria conclusione; non ci comunica un messaggio; non ci racconta come vanno a finire le storie dei vari personaggi. Tutto è lasciato al lettore: il “romanzo” è di formazione non solo per il protagonista, ma soprattutto per il lettore. Dall’illusione di andare alla ricerca di un mondo senza buchi neri si passa alla realtà vera, ossia che la libertà è il valore più prezioso che si ha e va vissuta in ogni luogo in cui ci si trova a vivere. E sta al lettore immaginare l’esito delle vicende narrate, in base a tutto ciò che ha appreso attraverso questo viaggio sull’isola.

Lo stile dell’autore è chiaro e scorrevole, ben studiato ed elegante. Si fa uso di termini anche aulici (penso a punzella) e di espressioni e modi di dire ricercati. Il narratore dialoga con il lettore in modo anche confidenziale; prevale l’uso del discorso indiretto, non mancando comunque la tecnica del dialogo. Le descrizioni riguardano più i gesti e le personalità che la fisicità del personaggio.

Il ritmo della narrazione non è molto andante, ma questo è da ricollegare al fatto che intento dell’autore è analizzare nel profondo le vicende narrate e i personaggi che ne sono protagonisti. Ammetto che mi sarebbe piaciuto assistere a qualche snodo in più sul necrolario, sulla casa delle madri, sui Poyka, sulla casamatta… ma ho compreso (credo) l’intento dell’autore, a mio parere, riuscito.

Ne consiglio vivamente la lettura, ma non posso non chiedervi: “Qual è la vostra isola che non c’è”?


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Brainstorming Culturale, 10 marzo 2021, di Annamaria Vanalesti


Una ricchezza di suggestioni

Il nuovo libro dell’autore romano, edito da “Il ramo e la foglia”, è uscito lo scorso 4 febbraio e ora è alla prima ristampa. Un viaggio fantastico, dolente e fiducioso, ci conduce verso una meta ben precisa: il desiderio di una società diversa e che lotti contro il male

La scrittura di Leonardo Bonetti si muove sempre tra due essenziali coordinate, quella della realtà e quella della fantasia, ma sarebbe meglio dire della surrealtà. In mezzo si inserisce la figura umana, con i suoi sogni, i suoi problemi, i suoi dubbi, ma soprattutto con la sua ostinata volontà di guardare e di cercare intorno a sé, anche i più piccoli e impercettibili segni.

La narrazione, quindi, diviene filo di Arianna per raggiungere l’Io, il proprio sé e ristabilire l’equilibrio con il mondo. In questo cammino si riconoscono i maestri che lo scrittore tiene presenti, prima fra tutti Annamaria Ortese, che spesso si insinua nella pagina, magari con un particolare, con un accenno, assai significativo (è il caso dell’iguana per esempio, in questo libro).

L’universo di Bonetti è segnato spesso da perdite, da abbandoni, da sofferenze, ma anche da un forte desiderio di amore, da attese colme di speranza, da un bisogno costante di difendere gli affetti.

Quello che assolutamente lui non sopporta è la banale quotidianità, fatta di routine e di dislivelli o ineguaglianze sociali, che mai si appianano, se non con una fuga.

E qui gli soccorre l’elemento onirico, che gli consente di aprire un varco nella bruttezza dell’esistente e di andare verso l’utopia. In questa chiave, secondo noi, va letto il suo nuovo libro ‘L’isola che non c’era’, che non è una rimembranza alla Peter Pan, ma un viaggio, dolente e al tempo stesso fiducioso, che il protagonista, Leo, compie dopo aver subito una perdita, quella dell’amore e di conseguenza un abbandono.

Mediante un linguaggio metaforico, ma limpido e chiaro nel suo fluire, si dipana il racconto di questaisola, che pian piano appare (si potrebbe quasi dire emerge ai nostri occhi) disegnando una sua storia impossibile, ma bella e virginale, di giustizia, uguaglianza, assenza di poteri imposti, con un totale governoda parte della natura, che domina, forte e incontaminata, in cui gli alberi hanno una vita che da nessuno può essere contrastata.

Il protagonista, anzi tutti i personaggi, sanno che quando vogliono possono ritornare indietro, nella vecchia realtà da cui provengono, quella genericamente definita come il continente e c’è sempre, ancorato in una baia dell’isola, un vascello pronto a salpare, che ripartirà prima o poi, con qualcuno, ma questa certezza non impedisce a nessuno di restare e di continuare a cercare.

L’isola è avvolta dal mistero, un mistero contenuto in un libro segreto che è sparito e non si sa dove sia. Quando l’isola è scomparsa poi è riemersa? Non si sa, eppure l’isola esiste ed è ciò che fortemente crede Leonardo, che vorrebbe scoprirla fino in fondo, nonché gli altri che abitano in quei luoghi e in qualche modo si sono adattati ad essi.

L’isola rappresenta anche l’ansia di rinnovamento del protagonista, un’ansia di bene, di vita migliore che contagia tutti. Le giovani donne in particolare, che sembrano così fragili e tenere, e sono invece determinate a portare a termine il loro progetto, aiutano a capire questa realtà immaginaria, eppure autentica, che ci appare attraverso il racconto e si propone come specchio dell’interiorità di ciascun personaggio.

L’enigma che circonda l’isola diviene l’enigma che si porta dentro ciascun personaggio e che tra luci e ombre, appare via via più inspiegabile e aziona un mulinello di dubbi, di domande irrisolte, di vite difficili e sofferte, legate a una speranza che vacilla e forse poi si vanifica del tutto.

Il mondo di Bonetti, del resto, non è un eden ove adagiarsi in perpetua beatitudine, non è nemmeno certezza di approdo a un porto sicuro, ma è graduale e faticosa conquista di un bene da difendere, di un portale da raggiungere che assicuri la fedeltà al patto con l’onestà degli intenti e della scrittura, cosa che, come avrebbe detto Saba, è l’unica che possa fare oggi un vero scrittore.

A parte questo significato che il libro spalanca, si offrono al lettore delle pagine poetiche uniche, come quella per esempio dell’abbattimento dell’olmo: “l’olmo, per un esilio imposto, se ne resta piantato sulle gambe nonostante i colpi, affetto da quell’allegria che lo rende oggetto di pietà”.  Immagine che colpisce e che si completa con quella di Aldina, la ragazzina che seduta a gambe incrociate ai piedi dell’albero, appoggia la schiena sul suo tronco e “accompagna ogni colpo con un riso cristallino”.

Sono questi piccoli quadri che scandiscono l’iter della storia nel libro e la trasformano in una sceneggiatura ricca di suggestioni e di stimoli di riflessione.

Non è dunque il finale del romanzo che incuriosisce il lettore, ma i continui cambiamenti di scena, le variegate sequenze in cui i personaggi vivono la loro identità nascosta, guardati a vista dall’occhio del protagonista, che è lo stesso occhio dell’autore. In questo modo, anche quella sottile sensazione apocalittica che in certi punti si avverte, si tinge di fantastico, di irreale, ma solo per dare più senso alla realtà così incrinata dal dolore.

Interessante e singolare è la figura del Dottor Timido, tra le altre, personaggio assolutamente fuori dagli schemi, che un po’ riassume quasi la voce dell’isola e ne trattiene il mistero. Rimane, al termine dellalettura, l’impressione di un forte desiderio, di una forte aspirazione a una società diversa, basata su altri valori, una società che abbia sconfitto il male.

Annamaria Vanalesti


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The BookAdvisor, 9 marzo 2021, a cura di Lucia Accoto

Le idee spesso si incuneano in testa senza vedere mai il sole. Gli è negato il giorno. Arrivano sia nelle ore di luce che in quelle senza ombre. Arrivano se la mente è in movimento, un trattore acceso anche quando è a folle.

Le idee conoscono la nascita, la primogenitura del pensiero, non è detto però che trovino la strada dell’azione, della realizzazione. A volte nascono e periscono allo stesso modo e istante. Ad averne, di idee. Anche quelle folli cercano vita e, in taluni casi, sono figlie di un sogno, di un sorriso offerto in cambio di nulla e nulla ottengono. Esse chiedono risposte, terreno fertile per crescere. Eppure, si fanno tanti giri, anche a vuoto, per farle germogliare in qualcosa che abbia un nome preciso. L’idea è astratta, l’azione è concreta. Quanti di noi si sono sentiti frizzanti di fronte ad un’idea. Le idee hanno il potere di cambiare l’umore, di migliorarlo e di peggiorarlo. Esserne privi significa avere messo un punto, a tutto.

In L’isola che non c’era di Leonardo Bonetti viaggi nella dimensione che conosci e in quella che ti è oscura, ignota. Su un’isola, riemersa dalle acque e da un libro segreto che ne raccontava la storia e la leggenda, conosci il valore della parola, soprattutto scritta, e della felicità velata. La libertà, quella sta in ciò che desideri e ottieni con le idee. E Leo, il protagonista, lo avverte passo dopo passo, respiro dopo respiro. Sull’isola la tristezza è vento freddo. È minacciosa, tutti la sentono ma ognuno la rifiuta tranne chi è riuscito a conoscere veramente se stesso e non ha paura per se, ma ha lo scopo di proteggere i nuovi occhi.

Delicato lo stile narrativo. La prosa è pulita, fluida, armoniosa. La storia è intimistica, introspettiva. Lo scrittore ha molta cura del lettore in un racconto che fa da faro.


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Margutte, 6 marzo 2021, a cura di Silvia Rosa


Un’isola misteriosa e sconosciuta è riemersa dalle acque dopo la scomparsa del libro che ne raccontava genesi e mito. Leo, giovane solitario dalla vita ordinaria, dopo un abbandono senza parole da parte dell’amata decide di imbarcarsi dalla costa adriatica alla volta di questa terra inconosciuta. Qui scopre una società fondata sulla giustizia, in cui non esistono furti né malattie. Le impressioni positive, però, lasciano presto spazio alla sensazione che ci sia un inquietante non detto: perché le madri non allevano i propri bambini? Qual è la funzione dell’oscuro Necrolario? Cosa succede nella casamatta di pietra e cristallo nascosta sulla montagna? Prima che l’isola sprofondi di nuovo e grazie all’aiuto di Giorgino e Aldina, innamorati in fuga dalle rigide regole a cui gli abitanti sono costretti, Leo riesce a sfiorare alcuni segreti di questo luogo che resta enigmatico come enigmatica è la vita. Attraverso una scrittura evocativa e ricercata, tra scoperte e zone d’ombra, Leonardo Bonetti orchestra un romanzo filosofico intriso di mistero, una fiaba ricca di simboli nascosti ma percepibili che è metafora del pensiero e dell’ispirazione artistica. L’isola che non c’era è un viaggio fisico e spirituale di cui si fa esperienza per intuizione, tra malie e disillusioni, e mostra il travaglio del processo creativo mettendo in guardia il lettore dal pericoloso incanto dell’immaginazione.

Dalla postfazione di Antonio Prete

Un racconto fantastico che si sottrae agli schemi narrativi del genere fantastico, un racconto utopico che si libera dalla pulsione verso quel nuovo ordine che è proprio delle utopie, un racconto dell’altrove che non si lascia catturare dal fascino dell’esotico. Leonardo Bonetti ha messo in scena una storia che mentre disegna la necessità di rompere con il torpore e le vessazioni e le ineguaglianze di una società chiusa nella ripetizione e nel dominio dell’utile, mostra il limite dell’altra necessità, di quella che vorrebbe edificare un mondo altro: altro nei rapporti, nel paesaggio, nei pensieri. Nello spazio, che si apre tra le due necessità – uno spazio tutto interiore, seguito nel definirsi del personaggio di Leo, nello svolgersi del suo desiderio, nel suo osservare – si distende un’interrogazione, e una ricerca, che è il lettore stesso a dover prendere su di sé, tra i suoi pensieri, collaborando con il divenire degli accadimenti. Un’isola emersa, l’approdo, le quotidiane scoperte, l’imprevisto, l’onda dell’oblio – il prima lasciato nella terra d’origine – i movimenti delle figure che si accampano nel nuovo mondo, che è un nuovo sistema di vivere e di intendere i rapporti, le relazioni affettive, il quotidiano, tutto questo si affida a una lingua che ha il nitore come sua qualità, e segue un movimento stilistico che ha variazioni tonali, scorci visivi, inatteso prender forma di figure sorprendenti. Via via che dinanzi agli occhi del giovane Leo si dischiude l’ignoto e prende figurazione l’enigma, il sogno dell’alterità, dell’edificazione di una società altra, della luminosa mutazione antropologica, si fa opaco. Via via che i rapporti del personaggio tendono alla familiarità, la curiosità si mescola al dubbio, e l’attenzione si flette nella domanda di senso. Il tutto è raccontato con una discrezione che è leggerezza del dire, un dire che sfiora l’allegoria senza cadere nella sua cifra. A un certo punto, appressandosi l’inquietudine del finale – nella sua plumbea rappresentazione del dolore e del male – è come se sui personaggi, sul paesaggio, sui dialoghi, cadesse una luce particolare, la luce dell’apparenza. E il lettore può leggere allora, in questa isola, nel suo mondo, una metafora delle pulsioni che trascorrono nel nostro mondo. Il sentimento della compassione dinanzi al naufragio della speranza è quel che c’è di più umano. Il racconto fantastico si è trasformato in un racconto morale.

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«Quest’isola non c’era. Non compariva nei portolani, immaginosi resoconti redatti dagli equipaggi del secolo decimosesto. Né in seguito nelle descrizioni dei mercanti o degli avventurieri che solcavano il Mediterraneo a loro rischio e pericolo. Né, è ovvio, nei trattati dei cartografi inglesi o spagnoli; mai si lesse di terre che interrompessero quel tratto di mare chiamato della Laga, già crocevia delle correnti tra l’isola di Malta, Lampedusa e Mazara in un luogo pensato, si sarebbe detto, al centro di un triangolo troppo difficile. Niente. Tranne le dicerie. E la certezza, di converso, che l’isola fosse dilagata nove anni prima, nel giro di poche ore. Così che da allora apparve davvero difficile resistere alla tentazione di immaginarla salire dall’abisso tra il mulinare delle correnti.» [...]

*

«È dunque dopo tre settimane di viaggio, pressoché invisibile alle vedette maltesi, che il nostro Leo, nei cui confronti nutriamo, è inutile negarlo, la più infinita sollecitudine, avvista finalmente l’isola. Ed è proprio allora che, di fronte agli scogli affioranti sul mare, egli avverte per la prima volta un sentimento sconosciuto, a metà tra l’affetto risorgente e una memoria dimenticata. L’isola esisteva anche prima, va dicendo a sé il nostro Leo, sebbene sia chiaro che nessuno ne mostri consapevolezza. In fondo basta un piccolo sforzo e ciò che appare lontano diventa di nuovo vicino, vivissimo, immortale come una cosa che sembrava persa per sempre. È l’uomo a non avere memoria dell’isola, immagina Leo; mentre l’isola, invece, non fa che attendere un suo pensiero come chi ha vissuto tutta la vita nell’incertezza.» [...]

«Uno stile particolare, una prosa raffinata e poetica, un’inversione di marcia netta nello scenario culturale italiano.»

Il Sole 24 Ore «Una scrittura originale, densa di immagini mirabolanti ed incisive e soprattutto fortemente ritmata.» – Il Messaggero

Leonardo Bonetti è nato a Roma nel 1963. È autore dei romanzi Racconto d’inverno(Premio Nabokov 2009), Racconto di primavera (Premio Carver 2011) e Racconto d’estate (finalista Premio Celano 2013), delle meditazioni in prosa poetica A libro chiuso(Premio Lorenzo Montano 2012), della raccolta di racconti La quercia nella fortezza(2015). È fondatore e leader degli Arpia, gruppo storico della scena musicale underground italiana. Per il cinema ha diretto Donina (2014), Un amore rubato (2016) e Rebeniza(2018).

(a cura di Silvia Rosa)


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Robinson, 6 marzo 2021, a cura di Piergiorgio Paterlini





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Bookoliche, 3 marzo 2021


https://www.youtube.com/watch?v=9-vm9PUbSHQ


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Mattia Pascal, 22 febbraio 2021, a cura di Elisa Lubrani

L’Isola che riemerge

Un’isola misteriosa e sconosciuta riemerge dalle acque dopo la scomparsa del libro che ne raccontava la genesi e il mito.

Protagonista del libro è Leo, un giovane solitario dalla vita ordinaria che dopo un abbandono senza parole da parte dell’amata (la sua pulzella), rimasto solo al mondo,  decide di imbarcarsi dalla costa adriatica alla volta di questa terra tanto evocata ma poco conosciuta.

La vita di Leo prima dell’isola sembra avvolta nel sonno, svagata e distante dalla realtà e vissuta con “umile ingenuità”.

“Leo, si sa, fa parte di quella famiglia di individui solitari che assecondano le illusioni più consuete: astinenza da TV e giornali nella professione del meno, ultima religione. Creature inconcluse, sconfitte senza battaglia, colte da lieta disperanza, alla ricerca e all’attesa d’una risurrezione costantemente temuta.Per questo dunque, un giorno come altri, si sarebbe avventurato alla volta dell’isola portando con sé nient’altro che la sua umile ingenuità” 

Arrivato sull’isola, Leo scopre una nuova realtà, una nuova possibilità: rimane affascinato dalle acque cristalline, dalla sabbia bianchissima e da Aldina. Sull’isola scopre una società fondata sulla giustizia, in cui non esistono furti e malattie.

Attraverso incontri e luoghi ambigui, Leo si interrogherà su alcuni segreti di questo isola misteriosa accompagnato dall’inafferrabile Dottor Elwin, il“Dottor timido” e la sua rivoluzione, colui che lo porterà fino al termine della sua avventura.

Incontrerà i Poyka, ascolterà la storia di Judith, andrà alla ricerca della casamatta passando per la casa delle gravide e il Necrolario: tutte tappe fondamentali per riemergere. E poi la storia d’amore tra Aldina e Giorgino a metà tra il fiabesco e il reale: i due giovani si ribellano alle regole dell’isola avvertendo l’ingenuo Leo “…Non lasciarti condurre troppo in là. Non c’è opera per cui varrebbe la pena spendere la vita, credimi. Nessuna grande opera che possa vivere della sua perfezione. È solo una vanità che nutre le immaginazioni più testarde, fuorviate dal loro stesso desiderio. No, Leo caro, non dimenticarlo: solo questa mia disperata richiesta d’amore vale qualcosa”.

Una metafora aperta

Leo è un uomo che vive di curiosità, dubbi e patimenti: per questo le sue domande saranno scomode e faranno cadere il velo dell’illusione. Così l’isola diventa metafora degli istinti del mondo, dell’uomo e delle sue mille inclinazioni.

«È un posto dove restare, le dico; che sia un’isola o un’idea, fa lo stesso. Un luogo, comunque, da sperimentare fino in fondo».

Un romanzo di formazione, un lungo racconto filosofico, una fiaba morale… l’Isola che non c’era è tutto questo e molto di più.

Con un linguaggio asciutto e incisivo, a tratti misterioso, Leonardo Bonetti ci mette di fronte a quanto le “apparenze” siano vitali per noi, nonostante continuino irrimediabilmente ad ingannarci. Sospesi in una dimensione altra, ci poniamo domande come l’ingenuo Leo. Ma le risposte che avremo ci porranno nuovi interrogativi.

In fondo non è forse questo essere uomini? Dedicare la vita ad  una ricerca insaziabile di risposte.


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Squadernauti, 19 febbraio 2021, a cura di Giovanna Piazza

Pubblicato nel mese di febbraio 2021 da Il ramo e la foglia Edizioni (primissimo titolo della casa editrice romana, in attività da metà del 2020), con una concisa e illuminante postfazione di Antonio Prete, L’isola che non c’era di Leonardo Bonetti è una narrazione fantastica, una fiaba morale, un racconto sulla parola, un romanzo di formazione, un dialogo e finanche un monologo filosofico.

Caratterizzata da una scrittura ricca, vasta, larga, capace di contenere ed elaborare forme e immagini e tutta interna, letteraria più che iconografica, ossia immersa nel processo del farsi delle cose piuttosto che nella sintesi e nell’urgenza di una totalità frontale di impulsi di azioni e reazioni; eppure piana, vicina, leggera e disinteressata alla seduzione della parola; quest’opera si fonda su una continua tensione implicita e silenziosa, che regala ritmo e compattezza ai venticinque capitoli.

Sembra che questa scrittura chieda al lettore non soltanto di seguire con la mente e di vedere, ma forse soprattutto di sentire intuitivamente (non sentimentalmente) ciò che accade mentre accade.

Protagonista del libro è il giovane Leo, il quale lascia una vita – così è tratteggiata ironicamente nelle prime pagine – quasi avvolta in un sonno, svagata, vissuta con “umile ingenuità” (p. 9) e d’un tratto libera da legami esterni, per un viaggio verso un luogo misterioso.

“Leo, si sa, fa parte di quella famiglia di individui solitari che assecondano le illusioni più consuete: astinenza da TV e giornali nella professione del meno, ultima religione. Creature inconcluse, sconfitte senza battaglia, colte da lieta disperanza, alla ricerca e all’attesa d’una risurrezione costantemente temuta.

Per questo dunque, un giorno come altri, si sarebbe avventurato alla volta dell’isola portando con sé nient’altro che la sua umile ingenuità” (p. 9).

Partirà dalle Marche, da una cittadella affacciata sull’Adriatico, per raggiungere un’isola su cui “ogni collegamento è bandito. Così che tra i saggi del paese più vicino si resta in ascolto per ore a sentire la voce dell’isola, affacciati come un palmo d’Africa all’orecchio del Mediterraneo.

La zona produce un campo magnetico che impedisce l’uso dei moderni sistemi di comunicazione, obbligando ad avvicinarvisi solo a motori spenti; né è previsto l’utilizzo di mezzi a propulsione o, men che meno, altre diavolerie atte all’automatismo. Ecco perché Leo da subito ha issato le vele con orgoglio sperando nel favore dei venti e dello spirito stesso del suo sogno” (p. 21).

Inafferrabilità e sottile anelito all’avanzare percorrono il romanzo, dentro un’immaginazione costruita per sequenze visibili (e rimandi a figure mitiche della letteratura italiana del Novecento, come l’iguana Isolina, che riporta immediatamente alle opere-mondo di Anna Maria Ortese, scrittrice di cui qui sembra si raccolga ed elabori l’eredità stilistica e morale), ma soprattutto fatta di scrittura e discorsi, cioè di tempo.

In questo libro, la tensione precede i fatti e la trama di superficie, ha origini profonde: gli eventi paiono nascere dall’interno, non come proiezioni ma quali necessità che a poco a poco si disvelano agli occhi del protagonista e del lettore, costantemente immersi in un’atmosfera dove l’incomprensibilità è solo un aspetto di evidenza del reale, e non un rifugio.

La lingua letteraria sfuoca le situazioni in ampie volute, movimenti di divagazione e ritorno: la lentezza della profondità gira agilmente intorno al mondo dei fatti, che si rivela brutale ma in fondo inessenziale.

I dialoghi sono pregni di racconti allusivi, misteri, presi in un continuo movimento d’espansione.

Fino al punto in cui il lettore, accompagnando Leo, ha l’impressione che tutto sia al di fuori del personaggio e di sé, tutto sia materia, liberata dall’illusione della solidità, proprio quando avviene la coincidenza – razionalmente inconoscibile – con il fuoco più interno dell’esperienza.

Allora l’ansia di ricerca del senso e di un centro cede il passo alla capacità di sostare, di stare nella dispersione e nella dilatazione che ogni incontro con altri personaggi (caratterizzati da nomi propri che nel procedere della narrazione rimandano a figure d’altrove, come Arsenij od Oleksandra, oppure Cora) procura al protagonista.

Leo costituisce il filo e il fulcro del racconto; alla sua vicenda si affianca la volontà nascosta di Aldina, una ragazza dell'”isola di sopra” che armeggia magicamente con la ronca, fidanzata con Giorgino, proposito che Leo aiuterà a realizzare: una coppia di esseri tra il reale e il fantastico, i cui nomi conducono alla dimensione di una qualche forma d’infanzia.

La parola, spazio di comunione e conoscenza, e insieme di potere e illusione (in contrasto con il silenzio e il segreto dell’isola, o forse da essi semplicemente contenuta), e – nel mondo narrato – intimamente collegato alla natura, attraverso la figura dell’albero, è l’altra protagonista di questo romanzo: “I tre fratelli, prima di iniziare a mangiare, hanno lavorato a uno scritto che ora leggeranno a voce alta; uno per volta, alzandosi e accennando un inchino prima della lettura, mostrano senza vergogna la sollecitudine a cui sono soliti dedicarsi ogni giorno dopo il rientro” (p. 27). E ancora: “«Tutto si regge sulla parola. E a questo si dedica ogni energia»” (p. 41); oppure: “«[…] Lo troverà ridicolo, ma mi sono andato convincendo che è proprio nella parola che risiede la radice della mia vergogna» fa il Dottor Elwin senza guardarlo. […] «Mi accade così: quando mi sorprendo a formulare un pensiero, un concetto, cresce in me il sentimento di una colpa non meglio precisata. Una colpa umana, per dirla meglio»” (p. 46).

Ecco che tra tutte le figure si staglia proprio quella del Dottor Elwin, quel “Dottor timido” (così chiede di essere chiamato il personaggio; corsivo nel testo, da p. 43) che gli ricorda che “ci si libera solo smettendo di specchiarsi” (p. 46), colui che accompagnerà Leo al termine della sua avventura.

Proprio sino al mirabile finale, la conclusione che pare irridere con determinazione e delicatezza la pratica predatoria della conoscenza. Come se conoscere se stessi significasse finalmente prendersi come si prende e possiede un oggetto.

“Credono, essi, alla realtà del libro pensando che sia conoscibile; proprio come se la realtà stessa lo fosse. Vogliono conoscere l’isola per conoscere se stessi. Non sognano più la loro rivoluzione” (p. 152).

Il senso della vita, sembra ricordare L’isola che non c’era, allora non è nemmeno cercare e trovare se stessi ma semplicemente “[…] sperimentare fino in fondo” (corsivi nel testo, p. 100) e lasciar andare.



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Border Liber, 14 febbraio 2021, a cura di Martino Ciano

Incantata e misteriosa, perfetta quasi utopica. Ecco l’isola che Leo raggiunge, che vuole scoprire, che si svela davanti ai suoi occhi increduli. Il libro di Leonardo Bonetti sa inchiodare come una favola e riesce a risvegliare il fanciullo che è in noi. Con occhi stupiti ci aggireremo per questo luogo senza tempo, riemerso dagli abissi, pronto ad accogliere coloro che non si porranno domande. Ma si può vivere senza dubbi?

Ed è qui che inizia l’avventura del protagonista, proprio nel momento in cui vuole capire cosa renda quest’isola un posto così puro. Eppure, anche la purezza ha il suo lato oscuro.

Certamente, lascio al lettore il piacere di scoprire cosa sia “l’isola”, a me tocca spendere più di qualche parola su tutto ciò che rende questo libro particolare. Siamo di fronte a un’opera che gioca con il mito. Leo potrà apparire ai nostri occhi come quei pellegrini che nel Medioevo si mettevano in viaggio con la speranza di giungere nel leggendario Regno governato dal Prete Gianni, così come lo potremmo paragonare a uno dei moderni personaggi che “vivono” nei romanzi distopici del Novecento.

Ma in tutto questo, L’isola che non c’era è un gioco di rimandi ad ancestrali desideri che albergano nell’uomo, tra questi: vivere in un Mondo senza guerre e senza povertà. Ma l’uomo vive di patimenti e turbamenti, la quiete del cuore e della mente viene tollerata solo per brevi attimi, poi, sopraggiunge presto la curiosità, il dubbio, la ricerca, la necessità di conoscere ciò che lo circonda, la volontà di dominio e di potenza.

Leo farà questo e metterà in pericolo la pace dell’isola, squarcerà il velo dell’incanto. Sentirà il bisogno di saziare la sua curiosità, ma in un Mondo perfettamente organizzato ogni individuo deve essere apatico, atarassico, fedele; eppure, tutto ciò che è fede è anche intolleranza e violenza.

Il romanzo di Bonetti è scritto con un linguaggio asciutto, scorrevole, che richiama in più punti il Calvino de Il barone rampante. Ma al di là dello stile, la forza di questo libro risiede nella sua capacità di condannare, con delicatezza, tutte quelle “apparenze” di cui siamo ancora innamorati, nonostante continuino ad ingannarci.



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Meddi Magazine, 14 febbraio 2021, a cura di Veronica Meddi

D’imperfetto, in questa opera letteraria, c’è solo il verbo incastonato nel titolo: “non c’era”, appunto, ma proprio nella negazione che lo anticipa, ecco che tutto promette una forma liquida; umida in alcuni passaggi, evaporata in altri.

Ogni imperfezione, è risaputo ormai, rende unico e riconosciuto chi la vive sulla propria pelle o sulla propria anima, non fa differenza; e quel particolare ha il potere di avvicinare i curiosi svegli o di allontanare lo sguardo dei codardi. 

Ecco, questo è quello che accade leggendo il romanzo di Leonardo Bonetti «L’isola che non c’era» (Il ramo e la foglia Edizioni, pag. 157, euro 15,00).

È un tempo fuori dal tempo quello qui raccontato dall’autore. 

Scorrendo le pagine, si ha come l’impressione di immedesimarsi in un delirio creativo poetico e crudele che sorprende, perché difficile da anticipare. Solo l’intuizione empatica può salvare il lettore.

Leo è l’anima semplice di questa storia scritta sul vento e sull’acqua.

Il giovane solitario dalla vita ordinaria, dopo un abbandono senza parole da parte dell’amata decide di imbarcarsi alla volta di questa terra inconosciuta. Qui scopre una società fondata sulla giustizia, in cui non esistono furti né malattie. Le impressioni positive, però, lasciano presto spazio alla sensazione che ci sia un inquietante non detto: perché le madri non allevano i propri bambini? Qual è la funzione dell’oscuro Necrolario? Cosa succede nella casamatta di pietra e cristallo nascosta sulla montagna? Prima che l’isola sprofondi di nuovo e grazie all’aiuto di Giorgino e Aldina, innamorati in fuga dalle rigide regole a cui gli abitanti sono costretti, Leo riesce a sfiorare alcuni segreti di questo luogo che resta enigmatico come enigmatica è la vita.

Leo, la sua fidanzata la chiama la pulzella, i suoi genitori, la sua famiglia.

Mentre l’uomo dimentica, l’isola è in attesa di un possibile risveglio da parte dell’uomo. 

In molti romanzi capita, durante la lettura, di inseguire una specie di soluzione; qui, invece, si rimane attaccati alle parole, scritte con maestria, godendosi il sapore di ognuna di loro.

«… La festa è solo nel bambino… perché è nel bambino che ogni passione si compie, che ogni febbre acquista il suo significato».

«L’isola che non c’era» (Il ramo e la foglia Edizioni, pag. 157, euro 15,00) di Leonardo Bonetti è un’opera che vibra e fa vibrare, illuminata, quasi, da una luce che trasporta in una dimensione altra.

Il consiglio non può essere altro che leggere questo romanzo.



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Modulazioni Temporali, 11 febbraio 2021, a cura di Massimiliano Pietroforte

“L’isola che non c’era” (Il ramo e la foglia edizioni, 2021, pp 156, euro 15), titolo che inevitabilmente trasporta la nostra mente in nuove terre, è un romanzo di Leonardo Bonetti. Il giovane Leo, osservatore e avventuriero, si identifica come il classico personaggio senza un passato, incastrato in un presente fatto di automatismi e con scarse aspettative per il futuro.

Una nuova realtà si presenta a Leo con la possibilità di approdare su un’isola, un’isola che non c’era, una terra emersa dalle acque e in grado di offrire una nuova possibilità agli uomini. Ma quale possibilità? Magari l’idea di una nuova rivoluzione? Magari una terra promessa, quella terra che è semplicemente rifugio e dove poter ricominciare dimentichi di sé. L’idea di poter ripartire lontano da tutto e da tutti, con nuove regole in una nuova società, affascina profondamente Leo. All’approdo su queste coste tutto sembra magnifico, acque cristalline, sabbia bianchissima esattamente come i denti di Aldina, la giovane ninfa che illumina il panorama. È così che ci viene presentata una nuova realtà dove non vi è dolore, dove la sofferenza non è permessa agli uomini; un posto dove, chi vive davvero è l’isola. In un turbine di incontri e di edifici ambigui, che disorientano in una terra dove gli esseri umani non parlano la stessa lingua, il desiderio più grande resta sempre lo stesso: essere ascoltati, compresi.

Per mezzo di una lingua elegante e allo stesso tempo fluida e avvolgente, l’autore ci trasporta in tunnel sempre più buio, senza punti di luce o apparenti vie d’uscita. L’isola, emersa dal mare e riportata alla luce ormai da nove anni sembra nascondere qualcosa di arcano, qualcosa che l’uomo non potrà mai afferrare fino in fondo.

Se una rivoluzione è possibile, chi è davvero in grado di guidarla?

«In verità quando vengo quaggiù provo una noia mortale. Non riesco nemmeno a pensare… se non all’infinita sterilità di ogni pensiero. Queste farfalle sono morte e sepolte. E così l’avorio. Ora che ci penso questo pozzo è una metafora, ecco tutto. Metafora di una fuga, intendiamoci. Come ogni rivoluzione. La nostra, del resto, se ne sta confinata quaggiù, in quest’aria stagnante».



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Letto riletto recensito, 11 febbraio 2021, a cura di Letizia Cuzzola

“L’isola che non c’era” di Leonardo Bonetti (Il ramo e la foglia edizioni, 2021) è un viaggio vero e proprio, più interiore che fisico, “a sud di tutto”.  Il protagonista è un uomo comune dimentico di sé, uno di quelli che attraversano la vita senza neanche sfiorarla finché l’isola, l’utopia, non lo chiamerà fra le sue «Creature inconcluse, sconfitte senza battaglia, colte da lieta disperanza, alla ricerca e all’attesa d’una risurrezione costantemente temuta».

Leo non ha più nulla da lasciarsi alle spalle ed è «Per questo dunque, un giorno come altri, si sarebbe avventurato alla volta dell’isola portando con sé nient’altro che la sua umile ingenuità». Pochi personaggi, apparentemente indefiniti nelle loro storie ma messaggeri di un mondo che c’è e si muove nonostante le fughe: «In fondo basta un piccolo sforzo e ciò che appare lontano diventa di nuovo vicino, vivissimo, immortale come una cosa che sembrava persa per sempre».

L’isola è comparsa all’improvviso, coi suoi paesaggi che nascondono verità altre, scelte che comportano una separazione nella visione dell’isola stessa. Improvvisamente, durante la lettura, ho ricordato una frase di Manlio Sgalambro: «Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio». Non siamo forse noi stessi isole e navi?

Leo si scopre, forse per la prima volta nella sua vita, un osservatore, inizia a porsi e porre domande e le risposte che riceve più volte lasceranno il lettore con nuovi interrogativi. Ne resteranno anche al termine della lettura, sappiatelo.

L’isola è metafora di per sé per la sue molteplici sfaccettature e interpretazioni, ma «È un posto dove restare, le dico; che sia un’isola o un’idea, fa lo stesso. Un luogo, comunque, da sperimentare fino in fondo». E arrivare fino in fondo al libro con la stessa curiosità delle prime pagine non è cosa da poco, con Bonetti ci si riesce.

    «L’isola è sola, infine, e separata da tutto. È il suo segreto la garanzia della sua immutabilità; come un vulcano in grado di contemplare la propria eruzione giudicandola tanto prevedibile quanto catastrofica».



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LiberoLibro, gennaio 2021

Un’isola misteriosa e sconosciuta è riemersa dalle acque dopo la scomparsa del libro che ne raccontava genesi e mito. Leo, giovane solitario dalla vita ordinaria, dopo un abbandono senza parole da parte dell’amata decide di imbarcarsi dalla costa adriatica alla volta di questa terra inconosciuta. Qui scopre una società fondata sulla giustizia, in cui non esistono furti né malattie. Le impressioni positive, però, lasciano presto spazio alla sensazione che ci sia un inquietante non detto: perché le madri non allevano i propri bambini? Qual è la funzione dell’oscuro Necrolario? Cosa succede nella casamatta di pietra e cristallo nascosta sulla montagna? Prima che l’isola sprofondi di nuovo e grazie all’aiuto di Giorgino e Aldina, innamorati in fuga dalle rigide regole a cui gli abitanti sono costretti, Leo riesce a sfiorare alcuni segreti di questo luogo che resta enigmatico come enigmatica è la vita.

Attraverso una scrittura evocativa e ricercata, tra scoperte e zone d’ombra, Leonardo Bonetti orchestra un romanzo filosofico intriso di mistero, una fiaba ricca di simboli nascosti ma percepibili che è metafora del pensiero e dell’ispirazione artistica. L’isola che non c’era è un viaggio fisico e spirituale di cui si fa esperienza per intuizione, tra malie e disillusioni, e mostra il travaglio del processo creativo mettendo in guardia il lettore dal pericoloso incanto dell’immaginazione.

«L’isola esisteva anche prima, va dicendo a sé il nostro Leo, sebbene sia chiaro che nessuno ne mostri consapevolezza. In fondo basta un piccolo sforzo e ciò che appare lontano diventa di nuovo vicino, vivissimo, immortale come una cosa che sembrava persa per sempre. È l’uomo a non avere memoria dell’isola, immagina Leo; mentre l’isola, invece, non fa che attendere un suo pensiero come chi ha vissuto tutta la vita nell’incertezza».